IL RONDO’ ALLA SIGNORINA MARIA A.

 

 

 I- UN’OPERA SEMPLICE E RAFFINATA

 

Rime e ritmi è, com’è noto, l’ultimo volume di versi di Giosuè Carducci, un libro che segna l’approdo di un lungo cammino, che si è snodato nella seconda metà dell’Ottocento, fermandosi alle soglie del nuovo secolo.

Questa raccolta appare, per consolidato giudizio critico, divisa in due parti differenti, e il riferimento non va certo alla presenza, del resto dichiarata, di rime e di ritmi, ossia di poesie in metrica barbara e legate alla tradizione italiana. In realtà, nel libro edito dalla Zanichelli si ritrovano fianco a fianco le grandi odi patriottiche e civili, come Piemonte e Cadore, per le quali nessuno oggi tenta più una persuasiva rivalutazione, limitandosi all’apprezzamento per alcuni squarci di vera arte, che non mancano (su tutte la più riuscita ci sembra senz’altro La chiesa di Polenta), con altre opere più brevi ed ispirate, a partire dagli stupendi Idillii alpini, fino all’epilogo malinconico di Presso una Certosa.

Queste poesie, frutto di un volto meno conosciuto del grande scrittore, sono capaci di offrire una piacevole sorpresa al lettore. Di qui, dunque, la necessità di porre l’accento su di esse, nell’ambito di una più equilibrata valutazione della produzione artistica di Giosuè, troppo spesso vittima di giudizi duramente sommari e di tenaci pregiudizi.

Tra le ventinove liriche di Rime e ritmi, in questo primo capitolo vogliamo porre l’attenzione in particolare sulla pagina iniziale, Alla signorina Maria A., dall’incantevole grazia, che si lega in modo indissolubile ad una grande perizia formale, come sempre nel Carducci migliore.

Si tratta di una composizione che non si ritrova sulle antologie scolastiche e che resta sconosciuta ai più, ma che, al contrario, viene citata in tutti i manuali di metrica italiana per la sua singolarità, dal momento che si tratta di uno dei rarissimi esempi di rondò presenti nella nostra letteratura, un metro dall’evidente derivazione dalle lettere francesi. L’opera in questione, per giunta, è stata scritta all’incirca nello stesso periodo nel quale anche il giovane d’Annunzio compone vari rondò, comprendendoli in Chimera.

Ma la rima di Carducci, lo diciamo subito, è molto più di una rarità, di un’innovazione cara ai poeti d’oltralpe, riproposta e riassaporata come emblema di un raffinato e sensuale passato, e lo dimostrano la sua posizione iniziale e il suo riferimento alla malinconia, la musa che anima tante pagine del crepuscolo lirico di Giosuè, dopo essersi fatta sentire anche in altre liriche precedenti. Ora, però, c’è in più il presagio della fine, l’avvertimento della china sulla quale l’esistenza si scopre avviata irrimediabilmente, e dunque questo mesto stato d’animo diventa una componente straordinariamente vitale in Rime e ritmi e, in generale, nell’ultima produzione del Nostro.

Non a caso, dopo aver raccolto le liriche che vanno fino al 1898, l’anno in cui, senza ritorno, si spengono i canti nel suo cuore, Giosuè volle premettervi questa breve poesia, insieme semplice e raffinata, composta in un giorno estivo del 1887, ben undici anni prima, e sentita dal Vate sempre più attuale e significativa.

 

II- A COURMAYEUR, NEL 1887

 

Il 1887 rappresenta un periodo importante per il poeta, che ad aprile, dopo aver visitato la suggestiva basilica di Sant’Antonio, a Padova, aveva scritto la prima redazione dell’ode alcaica Nel chiostro del Santo, intitolata A Maria G. (dal chiostro del Santo in Padova), che sarebbe divenuta la seconda composizione di Rime e ritmi.

Poco dopo, a giugno, la Zanichelli pubblica le Rime nuove, rendendo più meritato il riposo estivo. Dal 1885 Carducci, spinto dai medici, dopo un attacco di paralisi, aveva preso l’abitudine di trascorrere una parte dell’estate in montagna, per ritemprarsi. La prima vacanza aveva avuto come meta Piano d’Arta, in Carnia, paesino che si collega al suo stupendo lavoro Il comune rustico; l’anno dopo, nel 1886, aveva optato per Caprile, in provincia di Belluno, nel Cadore.

Nel 1887, invece, è la volta della montagna valdostana, e precisamente di Courmayeur, la “Conca in vivo smeraldo tra foschi passaggi dischiusa”, come si legge nell’incipit dell’omonima ode barbara del 1889[1]; si tratta di una località che il poeta amò e che è legata anche ad una parte degli Idillii alpini, negli anni Novanta.

L’autore, giuntovi nel mese di luglio, scopre l’imponenza e la bellezza di questo luogo, posto ai piedi del Monte Bianco, e ne resta come folgorato.

La montagna lo appassiona, infondendogli serenità, e Carducci, come si legge nelle pagine dell’Epistolario, vorrà conoscere anche tutte le attrattive turistiche della zona. Al Giacosa, che gli farà da guida, scrive il 25 luglio: “Io sto qui rifacendo lo spirito e il corpo in questa grande e benefica natura. Nulla avevo ancora veduto in vita mia di sì solennemente bello”[2].

Ma c’è anche dell’altro. Nella lettera del 12 agosto a Francesco Sclavo, egli si dimostra contento ed orgoglioso per essersi adoperato a favore della lingua italiana, che risuona per “la prima volta come nazionale ed officiale nell’ultimo comune d’Italia di faccia al monte Bianco”[3]. Com’è noto, Carducci scrisse in italiano il discorso utilizzato il giorno prima dal sindaco di Courmayeur, Savoye Laurent, che se ne servì per rivolgere il saluto augurale alla regina Margherita, giunta a trascorrervi una parte delle vacanze, contrariamente alla consuetudine, che privilegiava la lingua francese.

Per il poeta era una rivincita dell’idioma di Dante, Petrarca e Boccaccio sull’altro romanzo, così diffuso nella Valle, e possiamo immaginare quanto ci tenesse ad affermare i diritti della sua lingua nativa. Eppure è singolare il fatto che pochi giorni dopo non abbia avuto remore nel servirsi di un rondò, ossia di una forma così indiscutibilmente francese.

A questa scelta, possiamo ipotizzare, concorse in qualche modo proprio la realtà valdostana, ma vedremo che non mancherà anche uno spazio per la tradizione metrica italiana, e precisamente per il primo manuale conosciuto, quello composto dal giudice padovano Antonio da Tempo.

Portano la data del 12 agosto anche le parole scritte per l’album della marchesa Fiammetta Doria: “Nel conspetto del Monte Bianco, in questa grandiosa e insieme deliziosa valle, io non sento in me spirito di poesia, non so immaginare, non posso pensare: contemplare, mi basta e mi giova. Il presente in arte non è: le grandi inspirazioni, e le piccole, sono dall’avvenire o dal passato. Speranza in gioventù, memoria negli anni, che inchinano o declinano. O Monte Bianco, o nobili forme di conoscenze a pena scorte, come sarà dolce ripensare di voi, nell’afa incresciosa, nel torpido gelo, tra il volgo troppo conosciuto della pianura!”[4].

Carducci sarà di parola e non scriverà dei versi ispirati a Courmayeur e al monte Bianco fino al 1889, quando ritornerà per la seconda volta a villeggiarvi. Ma queste parole sono ugualmente preziose per penetrare nell’animo del poeta, per scavare nei suoi pensieri; mettendo a confronto il passato e il futuro, nell’immenso scenario naturale alpino, Giosuè riflette sul suo cammino esistenziale, sulla parte della sua vita irrimediabilmente fluita, alimentando, benché fosse solo cinquantaduenne, una vena amara, ma insieme addolcita dalla situazione e dal contesto ambientale, in una simbiosi felicissima e peculiare.

Dieci giorni dopo, così, quando toccherà alla signorina Maria Ara chiedere al poeta un pensiero per il suo album, le due diverse dimensioni temporali si ritroveranno di nuovo a confronto, senza punti di contatto, e allora la contemplazione lascerà spazio all’ispirata poesia del rondò.

La “piccola Maria”, che guarda fiduciosa al suo roseo avvenire, apparirà così lontana dal passato dell’io poetante, nel quale circola soltanto un’atmosfera malinconica, alimentata da tutto ciò che è andato perduto, e che nel futuro non riesce a scorgere altro, sia pure senza sussulti e scalpiti impetuosi, che l’abbraccio della lugubre Sorella.

Dei versi grigi e tristi non possono essere affatto utili, suggerisce il poeta alla destinataria della composizione, dunque è meglio lasciar perdere…

A completare il quadro in cui nascono questi versi, ci può essere utile una notazione contenuta in una lettera al Giacosa, scritta da Courmayeur e datata proprio 22 agosto 1887: “Dopo quattro giorni d’inverno oggi avemmo una giornata splendida; e la stagione si promette bellissima. Ciò non per tanto, domenica, 28, io partirò di qui a ore 6; e sarò ad Ivrea a 1,45 se non erro”[5].

Finalmente il sole ha fatto capolino sui monti, portando allegria, e l’anima sembra goderne, ricavandone un senso di serenità, di letizia, in cui possono nascere benissimo dei versi come quelli dedicati alla “piccola Maria”, non senza, però, il senso del tramonto, che sembra concretizzarsi, nella lettera in questione, nella prossima fine della vacanza.

La malinconica grazia del rondò, insomma, ci sembra in perfetta armonia con i luoghi e le situazioni che caratterizzano quest’estate valdostana, che pure doveva offrirgli ancora dei momenti particolari, come l’incontro con la regina, il 24 agosto, descritto in una famosa lettera alla moglie, prima del definitivo ritorno alla routine quotidiana.

Il rondò Alla signorina Maria A. porta la data del 22 agosto 1887 e tra le carte del poeta, nella Biblioteca carducciana, si conserva un autografo, scritto a matita su di un foglietto volante[6], con delle parti a penna.

Sulla copertina dell’inserto Carducci scrive “Rondeau/ O piccola Maria”, seguito dalla data appena citata. Possiamo notare che egli utilizza il termine francese, al posto dell’adattamento italiano rondò (che in questa accezione risale al Bettinelli, come si legge nel dizionario etimologico di Cortellazzo e Zolli[7]), preferito nelle varie composizioni che portano questo nome nella dannunziana Chimera, il che conferma la suggestione esercitata dalla letteratura d’oltralpe, in una zona così peculiare, come appunto la Valle d’Aosta.

Il poeta, come spesso usava fare, riutilizza un foglio sul quale aveva già iniziato a scrivere, alcuni giorni prima. Nella parte rimasta libera, si leggono gli otto settenari, che presentano un’unica, significativa variante rispetto al testo apparso in Rime e ritmi, ed è all’inizio del terzo verso, dove Carducci aveva scritto, in un primo momento, “Nasce la poesia”; in seguito, però, tracciato un frego sul verbo, annotò la lezione definitiva, ossia “Esce”, che è anche quella che si ritrova nel testo messo in musica dal maestro Marco Enrico Bossi, come vedremo.

La sostituzione mira, nelle intenzioni dell’autore, a rendere più precisa e concreta l’immagine della malinconia che, personificata, picchia al cuore del poeta, permettendo ai versi di venir fuori.

La variante, in ogni caso, non porta grandi cambiamenti e non rende necessarie altre novità nella struttura del rondò.

E’ interessante notare che il poeta, sul margine del foglietto, a sinistra dei versi, ha scritto lo schema della composizione, ossia “abaaabab”. Un modo, probabilmente, per tenere sott’occhio lo schema scelto o per verificarne l’esattezza.

Di certo, Alla signorina Maria A. è l’unico rondò della sua produzione poetica e anche tra i versi non accolti non si trovano altri esempi simili.   

La scelta del Vate, nel complesso, contiene degli elementi singolari ed offre degli spunti di analisi che meritano qualche doveroso approfondimento.

 

 

 

 

 

III- CARDUCCI, D’ANNUNZIO E IL GIUDICE PADOVANO

 

Carducci occupa un posto di spicco nel panorama ottocentesco per la sua predilezione per i metri rari, per il recupero di forme appartenenti alla tradizione italiana. Egli, infatti, si inserisce con autorevolezza in un cammino iniziato da scrittori come il Tommaseo, facendosi interprete di una reazione contro quelli che venivano ritenuti gli arbitri dei romantici.

In Levia gravia, così, egli si cimenta nel madrigale, nella ballata, nel serventese, e in Rime nuove questa operazione si completa, con la realizzazione di lavori come la nota sestina lirica Notte di maggio, che è del 1885 e di cui la regina gli chiederà di parlare, nel succitato incontro del 24 agosto 1887.

E’ stato giustamente rimarcato che il grande studioso della letteratura dei primi secoli e il poeta si ritrovavano uniti, facendo dei versi uno dei due proverbiali lati della medaglia; sull’altro, ci sono studi austeri e ancor oggi preziosi, visto il ricorso a manoscritti e fonti di prima mano, ricercati con tenacia in biblioteche ed archivi.

Carducci farà sentire il suo influsso su vari scrittori, tra cui non poteva mancare l’impetuoso autore di Chimera,  che ad appena sedici anni si era rivolto al maestro delle Odi barbare, esternando la volontà di combattere al suo fianco[8]. Ha scritto il Martelli: “Il giovane D’Annunzio del Canto novo aveva seguito passo passo il Carducci barbaro; l’ancor giovane D’Annunzio dell’Isotteo, della Chimera, del Poema paradisiaco, seguiva ora il nuovo insegnamento del Carducci romanzo”[9].

E’ quasi inutile sottolineare la bravura del Pescarese, le sue doti di assimilatore e ricreatore, la sua abilità nello scorgere delle proficue fonti di ispirazione, ovunque esse fossero, senza fermarsi al solo Giosuè, contro il quale condurrà, già negli anni Ottanta, una lotta, più o meno aperta, per la supremazia.

Il poeta abruzzese, che non ha esitato a rifare la nona rima de L’Intelligenza, sfoggia nel 1886 su rivista e poi, a fine anno, nel volume Isaotta Guttadauro ed altre poesie, ben sei rondò, che riproporrà anche nella successiva edizione del 1890, quando le altre poesie prenderanno il nome di Chimera (tra le poesie sparse, poi, si leggono anche due brani artisticamente più modesti, un Rondò del “loukoumi” e un Rondò dell’attesa, forse del 1888).

I sei pezzi, concentrati nell’Intermezzo melico, appaiono ancor oggi gradevoli e di squisita e raffinata fattura; in essi d’Annunzio gareggia con i suoi modelli, tra figure e sentimenti rarefatti, in cui si ritrova l’atmosfera di uno stilizzato medioevo, che all’epoca era di gran moda.

Egli stesso ricorda di essersi rifatto alle composizioni di alcuni autori, ovviamente francesi, che sono, per la precisione, Clement Marot, Francois Villon e Charles d’Orleans. Si tratta di nomi di spicco nell’ambito della letteratura d’oltralpe; il primo, in particolare, appartiene al Cinquecento, gli altri due al Quattrocento.

D’Annunzio usa per tre di essi il settenario, per gli altri tre l’ottonario. Proprio il verso parisillabo si incontra nella prima composizione, il Rondò pastorale, costruito su due sole rime, in cui rifà uno schema tipico di Marot, riproponendo alla fine della seconda e della terza strofa la parte iniziale del primo verso, “a ‘l gran Maggio!”.

In Come sorga la luna, in settenari, la circolarità del metro viene assicurata dalla ripetizione integrale, nel verso d’epilogo, di quello iniziale, ma le rime sono quattro.

Il più poeticamente riuscito ci sembra l’ultimo, Com’api armoniose, che conclude anche l’Intermezzo melico, in settenari; costruito secondo uno schema tipico del grande nobile d’Orleans, è formato da tre strofette, rispettivamente di quattro, quattro e cinque versi, con due sole rime. Inoltre, i primi due versi sono ripetuti alla fine della seconda strofa, mentre quello d’attacco ricorre in epilogo.         

Il linguaggio è ricco di echi della tradizione e ancora una volta d’Annunzio colpisce per la sua abilità, ma è anche vero che è difficile trovare qualcosa di più rispetto alla conferma della sua bravura di versificatore e, addirittura, di ineguagliabile cesellatore e falsificatore. D’altra parte, va anche detto che il genere del rondò in sé e alcuni degli esempi tenuti in considerazione favorivano una tale scelta dannunziana. 

Per il nostro discorso è importante notare che queste composizioni, edite in volume, lo ripetiamo, alla fine del 1886, sono anteriori, sia pur di poco, alla stesura manoscritta della pagina carducciana. Se la diffusione di un clima favorevole alla rivalutazione dei metri antichi italiani era stato favorito proprio da Giosuè, ora, allargando lo sguardo oltralpe, l’eclettico e indocile allievo arrivava prima del maestro.

Dell’Isaotta Guttadauro ed altre poesie si parlò molto, prima della pubblicazione, anche se poi le vendite furono modeste, smentendo le previsioni; ma al professore di Bologna non poteva sfuggire l’attenzione riservata dal Pescarese a questo genere.

E’ probabile, quindi, che proprio il più giovane poeta abbia, in modo più o meno consapevole, spinto Carducci a cimentarsi nel metro in questione. Il che si aggiunse alla suggestione, in precedenza rimarcata, esercitata su di lui dalla permanenza in una zona di frontiera, bilingue, come la Valle d’Aosta.

Va fatta anche un’altra considerazione. I modelli di rondò scelti da d’Annunzio sono diversi rispetto a quello utilizzato da Carducci. Nel primo, infatti, troviamo delle schemi appartenenti ad una fase più avanzata dell’evoluzione del genere, mentre nel secondo riscontriamo un modello più antico, quello del rondeau simple (o rondel sangle, secondo la terminologia di Eustache Deschamps[10]), che poi passa al triolet, a partire dal sedicesimo secolo, e trova un utilizzo anche nella poesia ludico-preziosa dell’Ottocento, come in Theodore de Banville[11].

Si tratta di una opzione, in fondo, in armonia con lo studioso delle origini, con il dotto ed esperto filologo romanzo, che a differenza di d’Annunzio, e forse proprio per diversificarsi da lui, risale nel tempo, fino a ritrovare una forma di rondò più semplice ed essenziale, di otto versi, di contro ai tredici o quindici del Pescarese.

Il rondò in passato ha goduto oltralpe di molta popolarità. Nato probabilmente come componimento per coro e solista, che accompagnava una danza in tondo, da cui il termine, ha trovato un primo, grande interprete in Adam de la Halle, celebre troviere vissuto nel Duecento e scomparso in Italia, che nei suoi rondò mostra proprio lo schema ripreso da Carducci, basato sulla ripetizione dei due versi iniziali, costituenti il ritornello, alla fine, mentre in quarta sede è reiterato il solo verso d’attacco (è così, ad esempio, in A jointes mains vous proi). Le rime sono solo due, con tutte le intuibili difficoltà che questo comporta.

     Nel Trecento è la volta di un altro grande personaggio, anche lui poeta e musicista, come Guillaume de Machaut, che scrisse vari rondeaux simples, che godono di una notevole considerazione e che è facile, pertanto, trovare riproposti dall’industria discografica classica.

Con il tempo, il componimento si modifica, ampliandosi ed emancipandosi dalla musica, e da quello simple, appena menzionato, arriviamo, nel Quattrocento, con autori come Villon e Charles d’Orleans, alle forme prescelte da d’Annunzio.

     E’ evidente l’importanza che nel rondò assume il ritornello, con la sua ripetizione, parziale o integrale, che crea una struttura circolare, simbolo di perfezione, particolarmente visibile nel modello carducciano, che riporta la poesia al punto di partenza.

Il metro richiede anche un attento uso delle parole in rima, evitando la monotonia e nello stesso tempo rendendo l’opera più arguta e significativa possibile. Connaturato, poi, è il rischio di dar mostra di una mera abilità tecnica o di una superficiale galanteria, un pericolo dal quale Carducci ci sembra si sia  guardato meglio del pur bravo Pescarese.

     I temi del rondò sono di solito legati alla celebrazione dell’amore, siano esse le sue gioie o, al contrario, le sue sofferenze.

In Italia, però, non ha una sua tradizione e gli esemplari sono rari (in un manuale si segnalano, accanto a quelli più conosciuti, solo “un paio di altri esemplari anonimi tre-quattrocenteschi”[12]).   

Ha poca affinità con la composizione di Rime e ritmi il Rodundelus integer ad imitacionem Ranibaldi Franci, del Boiardo, che già nel nome rinvia ad un non meglio identificato autore d’oltralpe, ampio e complesso com’è, formato da un ritornello e da ben otto strofe. Meritano, invece, una ben diversa attenzione i rondò o, più precisamente, rotundelli, composti dal giudice padovano Antonio da Tempo e compresi nel suo lavoro, la trecentesca Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, “l’unico manuale elementare e pratico disponibile per l’aspirante rimatore italiano durante gran parte del Trecento e tutto il Quattrocento”, per riprendere le parole dell’Andrews, che ne ha curato l’edizione critica[13].

Si deve proprio a lui se, malgrado l’esigua produzione nazionale, i manuali di metrica italiana continuano a riservare uno spazio decisamente generoso al rondò.

Carducci conosceva molto bene l’edizione bolognese curata dal Grion nel 1869, con il titolo Delle rime volgari (alla cui lettura accompagna quella del Trattato dei ritmi volgari del plagiario del giudice padovano, Gidino da Sommacampagna, edito l’anno dopo a cura di G. B. Giuliari), e se ne serve a più riprese nei suoi studi, siano essi dedicati alle antiche rime della città dove insegnava come alle opere di Petrarca, sebbene non mancassero delle esplicite riserve sulla poca chiarezza del testo trecentesco.

Di qui questo passo, tratto dall’ancora godibile saggio Musica e poesia nel mondo elegante italiano del secolo XIV, che in prima edizione appare sulla “Nuova Antologia”, nel 1870: “Antonio da Tempo, l’autore del più antico trattato su le rime volgari che si conosca, fa intendere, quanto lo permette la barbara oscurità di quel suo latino, che tra le altre rime i madrigali specialmente si compilassero per la musica”[14].

La Summa, insomma, è un’opera poco perspicua, ma pur sempre preziosa per ricostruire, in un contributo ampio ed articolato come quello in questione, la storia della poesia in musica, del rapporto tra questi due modi espressivi, che nel Medioevo era stretto.

     Quasi alla fine del primo capitolo, poi, Carducci, ricordando che le canzoni del Petrarca e di altri poeti non venivano messe in musica, aggiunge: “Le ballate, quelle specialmente di sola una stanza, e i madrigali; alcuni mottetti e cobbole; parecchie canzonette o rondelli francesi; ecco in Italia il soggetto e la materia della musica profana per tutto il secolo decimoquarto”[15].

Il rondello, insomma, porta sempre in terra gallica, com’era logico, e come confermava lo stesso Antonio da Tempo (“Et ultramontani valde utuntur his rotundellis”[16]), che aveva dedicato al tema ben quattro capitoletti del trattato, quelli dal quarantasettesimo al cinquantesimo, in pagine che hanno dato non poco da pensare agli interpreti.

Il padovano, dopo aver premesso i motivi posti alla base del nome rotundellus, individua quattro tipi principali, prendendo come criterio soprattutto la lunghezza dei versi, per cui esso può essere formato solo da settenari o solo da endecasillabi, ma può presentare anche entrambi in un’unica composizione, con due o tre versi di ritornello.

Per esemplificare quanto teorizzato, il giudice ha composto dei rondelli, costruiti in modo abbastanza simile, che sarebbero poi quelli più utilizzati ai suoi tempi (“sed gratia exempli apposui solum formas eorum quibus magis utimur”[17]), affermazione sulla quale è facile avere dei dubbi.

Tutti, infatti, sono costruiti su due sole rime. Tra questi, tre modelli sono formati da dieci versi complessivi, ossia due di ritornello e quattro disposti in egual numero nelle due strofe; il secondo verso di ognuna di queste, inoltre, è simile a quello iniziale. Il quarto esempio ha tre versi di ritornello e due strofe pentastiche; anche qui il secondo verso di ogni strofa è uguale a quello d’attacco.

Il giudice aggiunge che le strofe del rondò possono ripetersi a piacimento, sia pur rispettando le norme fondamentali del genere, dando in questo modo ragione all’editore moderno del testo, il quale nota che “il rotondellus di Antonio è una forma strofica”[18] e che egli non si rifà ad un tipo preciso di rondò francese, ma si approssima soprattutto al rondeau simple, ossia allo schema più antico, formato da otto versi, del quale abbiamo già parlato, dal momento che è quello usato da Carducci.
     Dei modelli indicati, il più vicino a quello dedicato alla “piccola Maria” è senza dubbio il primo, formato da septenarii toti, che nei primi sei versi è perfettamente uguale al nostro:

 

    Mille mercede chiero

Al mio Signor ogn’ora.

 

     I’ pur l’atrovo fiero.

           Mille mercede chiero,

           et ogni mio pensiero

           come suo Dio l’adora.[19]

 

     Alla ripresa integrale del verso d’esordio in quarta sede, va aggiunto l’identico schema della strofa (aaab). A questo punto, però, il rondò carducciano si conclude ripetendo il ritornello, come nello schema originario del rondò francese, passato al triolet, mentre il rotundellus di Antonio da Tempo continua con un’altra strofa uguale.

Se ne deduce che Giosuè, che sicuramente, come abbiamo visto, conosceva le pagine dell’autore trecentesco da molti anni, ritornando su di esse, non le ha riprese pedissequamente, provvedendo a correggere il primo dei quattro modelli proposti in modo fedele all’originale d’oltralpe, con un’operazione, possiamo dire, filologica.

Di conseguenza, ci sembra essere una parte di verità sia in quanti affermano che il rondò carducciano è “esemplato su quelli inseriti da Antonio Da Tempo nella sua Summa[20], sia in quanti ricordano che esso “riprende fedelmente uno schema di rondò trecentesco francese”[21].

Egli arriva alla sua interpretazione del gallico rondò attraverso un’opera della tradizione metrica italiana, come la Summa, e in questo comportamento ritroviamo il Carducci più consueto, che con Alla signorina Maria A. si diversifica anche dai modelli cari al d’Annunzio, che nel 1899, quando appare Rime e ritmi, aveva bruciato tante tappe artistiche e tante altre ne aveva da bruciare (anche se non dimenticherà, neppure negli ultimi anni, di consultare le opere del maestro avverso), mentre Carducci, partito da più lontano, era giunto all’epilogo del suo cammino.

Quanto al rondò come metro, i tempi andavano verso ben altra direzione e in Italia la fortuna che non era riuscito a dargli l’opera di Antonio da Tempo, oltre cinque secoli prima, non arriverà nemmeno, per altri motivi, dalla fiammata portata dai due grandi poeti in questione. Il Novecento, denso di eventi e di novità, opererà una vera e propria rivoluzione nel rapporto tra i poeti e la metrica. 

Ma, schema a parte, Alla signorina Maria A., con la sua semplicità lessicale e con il suo riferimento alla malinconia, contiene anche un volto più moderno, per quanto rimasto offuscato dalla celebrazione del poeta vate, quale si trova, ad esempio, nella nota antologia di Mazzoni e Picciola (che di Rime e ritmi riportano opere come Piemonte, Cadore, Alla Città di Ferrara e La Chiesa di Polenta). In questo rondò, infatti, non è difficile scorgere un’anticipazione di un certo gusto crepuscolare, sviluppatosi pochi anni dopo, che amava (ed illanguidiva) la malinconia, che si compiaceva di abbandonarsi all’ombra e ai mesti sentimenti.

Sarà un gusto che avrà i suoi modelli indigeni in Pascoli e d’Annunzio, com’è giusto, ma che anche da Carducci poteva trarre degli utili spunti, purtroppo troppo poco sfruttati.    

 


 

[1] Nelle citazioni dei versi carducciani abbiamo preso come testo di riferimento, per la completezza, Tutte le poesie, a cura di P. Gibellini, note di M. Salvini, Newton Compton, Roma, 1998, rendendo minuscole, nelle poesie barbare, le lettere iniziali di verso non precedute da punto. Il volume tiene conto dell’edizione critica delle Odi barbare di G. A. Papini.

[2] Lettere di Giosue Carducci, Edizione Nazionale, Zanichelli, Bologna, 1953, vol. XVI, p. 158. 

[3] Ivi, p. 166.

[4] Opere di Giosue Carducci, Edizione Nazionale, Zanichelli, Bologna, 1938, vol. XXVIII, p. 274.

[5] Lettere di Giosue Carducci, cit., vol. XVI, p. 169.

[6] Cart. III, 43.

[7] M. CORTELLAZZO- P. ZOLLI, Dizionario interattivo etimologico, Zanichelli Bologna, 2000, sub voce.

[8] Sui rapporti tra i due poeti, si veda, tra l’altro, il saggio D’Annunzio e Carducci (o di una lunga infedelissima fedeltà), di I. CIANI, in Carducci poeta, a cura di U. Carpi, Giardini, Pisa, 1987, pp. 215-243.  

[9] M. MARTELLI, Le forme poetiche italiane dal Cinquecento ai giorni nostri, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, Einaudi, Torino, 1984, vol. III, tomo I, p. 603.
  

[10] Rondeaux et autres poésies du  XVe siècle, a cura di G. Raynaud, Parigi, 1889, p. XXXIX e XLIV.

[11] G. BERNARDELLI, Metrica francese, La Scuola, Brescia, 1989, pp. 178-79.

[12] F. BAUSI- M. MARTELLI, La metrica italiana, Le Lettere, Firenze, 1996, p. 121.

[13] A. DA TEMPO, Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, ed critica a cura di R. Andrews, Commissione per i testi di lingua, Bologna, 1977, p. VII.

[14] G. CARDUCCI, Musica e poesia nel mondo elegante italiano del secolo XIV, in Studi letterari, Zanichelli, Bologna, 1893, p. 324.

[15] Ivi, p. 302.

[16] A. DA TEMPO, Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, cit., p. 66.

[17] Ivi, p. 70.

[18] Ivi, p. 129.

[19] Ivi, p. 67.

[20] F. BAUSI- M. MARTELLI, cit., p. 246.

[21] F. DE ROSA- G. SANGIRARDI, Introduzione alla metrica italiana, Sansoni, Milano, 1996, p. 280.  

       

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