IV- IL PRIMO POSTO E IL TITOLO

 

Rime e ritmi è un libro meno costruito e meno ampio, rispetto ai due precedenti, privo di divisioni interne, in cui le ventinove composizioni si dispongono, in linea di massima, seguendo l’ordine cronologico, con dei cambiamenti che hanno un loro significato più o meno rilevante. Carducci vi sistemò le poesie nate a partire dal 1887, per finire al cruciale 1898, punto d’arrivo della sua produzione, quando fu ultimata anche la stampa del volume, che però portò i millesimi dell’anno successivo.

Composta nell’estate del 1887, come abbiamo visto, quando già da qualche mese erano apparse le Rime nuove, la piccola poesia dovette assumere un suo preciso valore solo in seguito, quando, considerata con un po’ di distacco, lungi dal confluire tra le rime estravaganti, sembrò l’ideale per rendere l’essenza di quel placido e malinconico ripiegamento, così presente nelle liriche della sua ultima stagione, sul quale l’autore intendeva porre l’accento.

Per chiudere il testo zanichelliano, invece, Giosuè si servì del Congedo, la cui prima redazione risaliva a parecchi anni prima, con il quale rimarcava lo spegnersi dei canti nel suo cuore.

In questo modo, uniformava Rime e ritmi alle raccolte precedenti, chiuse proprio da un Congedo.

In Rime nuove egli aveva celebrato il poeta come “grande artiere” (v. 19), in una celebre composizione, che si collega per la struttura metrica, oltre che per il contenuto, a quella iniziale, Alla Rima. Un attacco e un epilogo legati dalla cantabilità dell’anacreontica e da un numero quasi eguale di versi (il Congedo ha però una strofa in più, 12 contro le 11 di Alla Rima).

Lo stesso avviene nelle Odi barbare, aperte da un Preludio di quattro strofe saffiche e chiuse da un Congedo del tutto simile, nei cui versi finali fa capolino la “serena imagine” (v. 14) della morte, tra i bicchieri e il sorriso delle donne belle.

L’idea di circolarità (che tra l’altro ha proprio nella struttura del rondò una sua limpida e perfetta realizzazione) doveva, pertanto, nella mente di Carducci, riproporsi, per quanto possibile, anche in Rime e ritmi, che pure ha, come già evidenziato, un’architettura più libera.

Al Congedo delle due precedenti raccolte fa, così, riscontro uno che si presta, nella sua essenzialità (“Fior tricolore,/ Tramontano le stelle in mezzo al mare/ E si spengono i canti entro il mio core”), a scolpire l’idea di un distacco più forte, questa volta definitivo, non segnato dalla speranza di una ripresa, in occasione di un nuovo libro.

Un epilogo dalla stringatezza (un quinario e due endecasillabi) alleviata solo dalla pagina immediatamente precedente, per la quale, ancora una volta, Carducci aveva modificato l’ordine cronologico, retrocedendo Alle Valchirie, che è dell’autunno del 1898. Si tratta di Presso una Certosa, del 1895 (per la quale rimandiamo al saggio specifico), nella quale l’”inverno” (v.13) conduce al silenzio della morte, non senza la sentita invocazione al “padre Omero” (v. 15), nell’ambito della sua religione delle lettere.

Se tale è il Congedo di Rime e ritmi, si comprende la necessità del poeta di trovare una composizione che potesse fungere da degno pendant, segnando l’inizio del libro. Tra tutte, nessuna come il grazioso rondò dovette venire incontro alle necessità del Vate.

La scelta non cade, come nelle due altre raccolte, su di una poesia dallo stesso metro, ma si tratta pur sempre di una lirica di breve respiro, con una sua peculiarità e che, tra l’altro, anche dal punto di vista cronologico, non comportava grosse forzature. Il rondò, infatti, essendo del 1887, come sappiamo, anno per molti versi di frontiera, si pone all’inizio del periodo cronologico in questione, ragion per cui bastò anteporlo a Nel chiostro del Santo, che nella sua prima redazione è di qualche mese anteriore.

Ma il fattore più importante che ha giocato a favore di Alla signorina Maria A. è rappresentato dal suo valore programmatico, dalla sua capacità di sottolineare l’importanza del tema della malinconia, in Rime e ritmi, che domina in varie composizioni, fino a trasformarsi in un più cupo presagio di morte.

In questo modo, il rondò, oltre a racchiudere un tema centrale del libro, riesce anche a porsi, nello stesso tempo, all’inizio di un cammino, che si chiude con il fatale arrivo dell’uomo e del poeta, dell’io poetante che nella lirica d’apertura aveva evidenziato la sua distanza dalla “piccola Maria”, dalla giovinetta che gli chiedeva dei versi.

L’opera viene designata, in un primo momento, come riportato sulla copertina dell’inserto carducciano, con il verso iniziale, O piccola Maria, che si legge anche nella raccolta Canti Lirici ad una voce con accompagnamento di pianoforte, messi in musica dal maestro lombardo Marco Enrico Bossi, di cui riparleremo. Il titolo viene preceduto da queste parole: “Poesia e Musica dedicata alla gentile Signorina Maria Luisa Ara”. 

Ne deduciamo che nella raccolta del 1899 il poeta modificò il titolo riprendendo l’appena citato pensiero di dedica.

Forse non fu un’idea del tutto felice, visto che così personalizzava una composizione che invece ha un valore di esordio per l’intera raccolta. Di certo, egli compie l’operazione inversa rispetto a quella che si riscontra nella seconda lirica del libro, dedicata alla figlia di Dafne Gargiolli, che passa da A Maria G. (dal chiostro del Santo in Padova) a Nel chiostro del Santo.

In questa, nei versi 13-14, appartenenti alla prima delle due strofe in seguito soppresse, l’io poetante si rivolge alla destinataria, chiamandola “o parvola/ Maria crescente…” (e “parvola” era già nel verso d’esordio del sonetto Ad una bambina, appartenente alle Rime nuove, anch’esso dedicato a lei, anni prima), in un modo che ricorda il ritornello del rondò legato al nome della signorina Maria Ara, dove il più letterario “parvola” lascia però il passo a “piccola”.

Due Marie nel titolo delle due prime composizioni, che presentano punti di contatto anche per il sentimento che le ispira (si pensi in particolare alla terza strofa di Nel chiostro del Santo: “Tal su l’audacie de gli anni giovani/ a me poeta passaro i cantici,/ ed ora ne l’animo chiuso/ solitaria ne mormora l’eco”, vv. 9-12), erano evidentemente di troppo.

Un altro titolo che si avvicina a quello della poesia d’esordio di Rime e ritmi è nel volume del 1887, dove ci imbattiamo in A madamigella Maria L. (ossia Lugol, la figlia del traduttore Julien Lugol), che è del 1885, dunque di due anni anteriore.

Si tratta di un sonetto che inizia, altro particolare interessante, con un O, che apre la prima quartina, nella quale l’io poetante si rivolge alla donna in questo modo: “O ne’ giorni tuoi mesti e lagrimanti/ Volata fuor de la veduta mia,/ Quale risalïente angelo in pianti,/ Dolce lume di ciel, bionda Maria”.

In generale, rispetto a queste somiglianze riscontrate, il Carducci di Alla Signorina Maria A. si caratterizza per una maggiore semplicità ed essenzialità, affidando la preziosità allo schema metrico prescelto.

 

V- UNA LETTURA

 

Il rondò è formato da otto settenari piani e la circolarità appare immediata, anche dal punto di vista grafico. Il ritornello, infatti, apre e chiude la poesia, lasciando al centro, isolata, l’unica strofetta di quattro versi, di cui, come sappiamo, il secondo riproduce il settenario d’esordio.

Le sue parti, di eguale estensione, hanno una loro funzione: nel ritornello è sottolineata la distanza tra la “piccola Maria”, che funge da occasione per la nascita dell’opera, e l’io poetante, mentre nella strofetta, posta nel cuore del rondò, viene enunciata la poetica della malinconia, che si collega strettamente al “cor”.

Due componenti, ovviamente, legate dalla ripetizione di un intero verso, ma anche dal susseguirsi delle rime, le uniche due, che giungono fino alla fine. Da un lato, in cinque versi, abbiamo Maria: poesia: malinconia, con il nome della signorina ripetuto per tre volte; dall’altro, in tre settenari, con il verbo reiterato, la rima importa: porta, che rientra nell’ambito delle rime derivative, visto il legame etimologico che c’è tra i due termini.

E’ appena il caso di notare che la presenza della stessa parola alla fine del verso costituisce di regola una rima identica, ed è il caso di “Maria” e di “importa”, ma già sappiamo che la ripetizione coinvolge l’intero settenario, non solo la parte terminale, secondo le regole del rondò, che è anche un esercizio di bravura, uno sforzo di conferire il massimo senso possibile ai termini utilizzati, senza cadere nel cerebrale e nell’artificioso.   

Il risultato è una lirica di rarefatta e pregnante essenzialità, che scivola via, quasi inavvertita, lasciando nell’aria solo l’eco di una domanda, che si perde, lieve, confermando e prolungando l’atmosfera densa di malinconica grazia che permea il tutto.

La poesia si apre con la risposta ad una richiesta sottaciuta ma facilmente immaginabile. La signorina Maria Ara, di cui non sappiamo molto e che resta comunque una presenza senza sviluppo nell’opera, a Courmayeur, nell’estate del 1887, chiede con molta probabilità al Vate di scriverle dei versi per l’album. Un invito forse accompagnato da candore e da giovanile entusiasmo, che non lasciano indifferente il Nostro. 

Da questo antefatto nasce la contro-domanda del poeta, che non risponde in un senso o nell’altro o, meglio, acconsente alla sua richiesta evidenziando l’impossibilità di esserle utile, dal momento che i versi, per lei che è così giovane, non possono avere alcuna importanza.

La signorina, dal nome semplice e così diffuso, per ovvi motivi, nel corso dei secoli (già utilizzato, tra l’altro, nel noto endecasillabo di Idillio maremmano, “Meglio era sposar te, bionda Maria!”, v. 33), è connotata con un unico, pregnante aggettivo, preferito a “parvola”, come già notato, che domina e si distende nel verso, con la sua forma sdrucciola: essa è “piccola”, dunque, con i suoi pochi anni, specie al confronto con quelli del suo interlocutore, non sa ancora nulla del vero volto dell’esistenza. Davanti a lei ci sono dei cieli azzurri, delle rosee prospettive, c’è un cammino che sembra interminabile, com’è normale.

E’ proprio la sua giovinezza a distanziarla da Giosuè, a creare una barriera, avvertita dal consapevole poeta, che pure non è vecchio, come rimarcò a suo tempo il Russo, con un’arguta osservazione, ma avverte con forza il peso dell’età: “…ci è stato sempre parlato di un Carducci vittorioso, sanguigno, aggressivo, e beatamente soddisfatto dei buoni mangiari e dei buoni beri, ed egli invece doveva concludere con i versi Alla piccola Maria, scritti il 22 agosto 1887, quando era appena cinquantaduenne…“[22].

La poesia, ed in particolare quella del Vate, potrebbe riuscire solo ad offuscare per un po’ la nitidezza della visione di una “piccola” creatura, potrebbe solo comunicare un senso malinconico dell’esistenza, le cui ragioni ultime sfuggono, per forza di cose, alla signorina.

Nelle composizioni di Rime e ritmi troveremo a più riprese il poeta che contempla la realtà, come in alcuni degli Idillii alpini, da In riva al Lys a Sant’Abbondio (che si chiude in questo modo: “Oh tanto/ Breve è la vita e così bello il mondo!”, vv. 13-14), con la consapevolezza della caducità della vita, non senza cercare, in altre liriche, un’evasione, inseguendo il fascino della giovinezza muliebre, che risponderà al nome di Annie Vivanti. Ma neppure questa seconda strada porterà lontano e si chiuderà con la struggente Elegia del monte Spluga, dall’incantevole finale. Tutti i percorsi, alla fine, portano Presso una Certosa, per il definitivo Congedo.

Nel rondò la distanza tra giovinezza e vecchiaia, tra primavera e inverno, dell’anima, prima ancora che del corpo, è pertanto un dato acquisito, e questa mesta accettazione risuona nel distico d’esordio.

La poesia ora non viene vista come un impegno civile, come una lotta contro le ingiustizie e le storture del mondo, né come il frutto di una ricerca di bellezza, che si rivolge a tutti, che ognuno può gustare ed apprezzare, sulla base di un valore universale. Il Vate che ha sempre esaltato il valore dei “versi”, che ha rimarcato la superiorità della poesia sulla prosa, secondo la concezione umanistica, lascia spazio al suo volto più dimesso e consapevole, rispetto al quale Maria appartiene ad una sfera diversa e più felice.

Il termine “versi”, anticipato, assume una notevole importanza, rappresentando il fulcro del settenario e della domanda, e per il rilievo va accostato all’aggettivo “piccola”, che occupa la stessa posizione, anch’esso con un ictus in seconda sede.

I tanti riferimenti più o meno espliciti, contenuti in quell’”a te che importa”, che chiude il ritornello, rendono quanto mai gentile l’espressione, che in Carducci ricorre varie volte, con diverso valore, contenendo note di sdegno, di sarcasmo (in Al Beato Giovanni Della Pace, appartenente a Juvenilia, si legge: “Che t’importa, o razza sfatta,/ De le cose di quaggiù?”, vv. 61-62), ma anche connotazioni più vicine a quelle del nostro passo.

In Primavera classica, contrapponendo la bellezza femminile, effimera, a quella della natura, ricorrente, si legge, in un metro anacreontico: “Che importa a me de gli aliti/ Di mammola non tocca?” (vv. 9-10); e poco dopo, all’inizio della quartina successiva: “Che importa a me del garrulo/ Di fronde e augei concento?” (vv. 13-14).

Il nesso più evidente e significativo, però, è quello con Intermezzo, e precisamente con la parte finale della terza parte dell’ampia composizione: “Ecco, a metterti in versi io mi strapazzo,/ E non m’importa un corno/ De le tue smorfie, o a la grand’arte pura/ Vil muscolo nocivo” (vv. 115-118).

Il riferimento finale è al cuore, visto come un nemico dal poeta barbaro, che ha in mente l’armonia dell’antica arte classica, greca e latina, e che polemizza contro il languido sentimentalismo. Ma nel rondò sarà proprio la voce del cuore a farsi sentire, in modo dimesso e delicato, una voce che non trasporta il lettore negli abissi dell’anima e della passione, né, tanto meno, grida a voce alta lo sdegno o il disprezzo, ma segue, docile, il richiamo della “malinconia”, esprime il rimpianto per ciò che non è più e guarda alle gioie residue dell’esistenza con in bocca l’amaro della transitorietà.

In questo modo, dunque, partendo dai nessi lessicali, è possibile cogliere, nel confronto, le caratteristiche di questa componente della tarda produzione carducciana, che ha in Alla signorina Maria A. il suo punto di riferimento.

Rispetto al ritornello, la strofetta del rondò ha un carattere esplicativo e “la poesia” è una ripresa del “versi” del settenario precedente. Ora viene spiegato il perché della domanda ed è importante notare come la necessità di ripetere il verso d’inizio, nel quarto settenario, secondo lo schema del rondeau simple, venga sfruttata nel migliore dei modi dal Carducci, aggiungendo valenza alla stessa composizione.

L’io poetante, infatti, riesce a sottolineare ulteriormente l’idea della differenza, il suo rivolgersi ad una “piccola” interlocutrice, così diversa, disegnando nel contempo la circolarità del rondò, in una strofetta che ha i primi tre versi rimanti con quello d’attacco.

A Maria la spiegazione non può che essere data con semplicità, sia pure in un contesto caratterizzata da una grande perizia metrica. E in questa luce si chiarisce anche, nel terzo verso, l’unica variante riportata nel manoscritto di Casa Carducci, come ricordato nel secondo paragrafo, con la sostituzione successiva di “Nasce” con “Esce”.

Non c’è tra i due termini una grande differenza e i commenti spiegano il verbo definitivo con “nasce, sgorga”[23], ma l’immagine diventa più chiara e precisa, facendoci ricordare, per certi aspetti, l’animazione di un carillon, in cui una porta si apre dopo il risuonare di alcuni delicati colpetti.

In ogni caso, se la poesia nasce nel cuore, il verbo uscire pone l’accento sul risultato finale, sul suo venire alla luce, sul suo dare vita ad una materia intrisa di dolente malinconia.

Il verbo originario ci riporta, tra l’altro, ad un’ode barbara, Cerilo, nella quale si legge: “sotto l’adulto sole, nel palpito mosso da’ venti/ pe’ larghi campi aprici, lungo un bel correr d’acque,// nasce il sospir de’ cuori che perdesi ne l’infinito,/ nasce il dolce e pensoso fior de la melodia” (vv. 3-6). Qui la fonte d’ispirazione è rappresentata dalla forza viva della natura, con i suoi impareggiabili spettacoli, che sveglia i cuori, altrimenti condannati ad un ottuso sonno. In Alla signorina Maria A. prevale una visione più dimessa ed estenuata, ma non c’è dubbio che alcune liriche di Rime e ritmi deriveranno proprio dal contatto con una realtà coinvolgente, quale quella della montagna, pervase da un sentimento “dolce e pensoso”.

Quanto all’”Esce”, posto in evidente risalto, all’inizio della strofetta (notiamo che il primo, il terzo e il quarto settenario di questa hanno l’accento sulla prima sillaba, in battere, a differenza del settenario che riprende l’attacco, accentato sulla seconda), ricorre varie volte nei versi carducciani. Si pensi, in Rime e ritmi, a Piemonte (“ma da i silenzi de l’effuso azzurro/ esce nel sole l’aquila…”, vv. 5-6) e ad Esequie della guida E. R. (“Esce in aperto, e al cimiter procede”, v. 13).

La poesia, insomma, reagendo allo stimolo, trova la forza per uscire fuori, per far sentire la sua voce, sommessa, ma pur sempre chiara e sincera, attestando in questo modo la sua esistenza, trovando l’unica strada ancora aperta.

Il motore di tutto il processo, ovviamente, come indicato alla fine del quinto verso, è la malinconia, anzi, “malinconia”, senza articolo, con un uso frequente nella lingua letteraria per i termini astratti.

Vari critici hanno a giusta ragione evidenziato il ruolo di questo stato d’animo nell’ultima raccolta, pur aggiungendo che esso non è isolato nella produzione di Giosuè.

Vale la pena di notare, però, che il termine in sé è tutt’altro che consueto nel corpus ufficiale poetico del Nostro. Anzi, quella di Alla signoria Maria A. è l’unica sua attestazione al singolare, come a rafforzare il valore programmatico e introduttivo della lirica. Al plurale un’altra occorrenza ci porta al finale di Mattutino e notturno, in Rime nuove (“Quando ammiro da i poggi ermi la luna/ A la città marmorèa tacente/ Dir le malinconie de l’infinito”, vv. 12-14), mentre in A Giulio, nella raccolta Juvenilia, l’avverbio corrispondente si distende per un intero settenario (“Non sempre aquario verna, né assidue/ Nubi si addensano, piogge si versano/ Malinconicamente/ Sovra il piano squallente”, vv. 1-4).

Nel rondò la malinconia gioca un ruolo da protagonista, personificata (ma la lettera iniziale è comunque minuscola) e colta nel semplice atto di battere alla metaforica porta del cuore, per farsi aprire. Come non ricordare, nel celebre sonetto Funere mersit acerbo, il piccolo Dante che batte alla porta della tomba dell’omonimo zio? Ma possiamo aggiungere anche la prima quartina della barbara scritta per la figlia Beatrice: “O nata quando su la mia povera/ casa passava come uccel profugo/ la speranza, e io disdegnoso/ battea le porte de l’avvenire” (Per le nozze di mia figlia).

Il precedente più significativo, però, ci sembra indubbiamente quello di Mattinata, in Rime nuove, dove il verbo battere si ritrova all’inizio di ciascuna delle tre ottave-rispetti. Nella prima è il sole, che picchia alla finestra della donna cantata, nella seconda è il vento, mentre l’ultima si apre così: “Batte al tuo cuor, ch’è un bel giardino in fiore,/ Il mio pensiero, e dice: Si può entrare?” (vv. 17-18).

La lirica, del 1882, era stata da pochi mesi compresa nel volume del 1887. La speranza in un amore che dà gioia e conforto lascia spazio, nel rondò, al mero rimpianto, ad uno stato d’animo disilluso; eppure un ritorno, per molti versi, alla situazione di Mattinata, l’avremo, tre anni dopo, in Ad Annie, che ha in apertura proprio il verbo battere, in una situazione che darà adito a pungenti caricature. Qui il cuore riprende a palpitare al pensiero della Vivanti (“Scende da’ miei pensieri l’eterna dea poesia/ su ‘l cuore, e grida- O vecchio cuore, batti.// E docile il cuore ne’ grandi occhi di fata/ s’affisa, e chiama- Dolce fanciulla, canta” (vv.9-12), ma con il solo effetto di incupire la malinconia, nella dolente solitudine dell’Elegia degli scoiattoli e delle marmotte.

Nella rarefatta tessitura del rondò ricorrono alcuni dei termini appena citati, e lo stesso può dirsi per l’uso del vocativo.

La forma “Batte”, disposta all’inizio del verso, richiama per la posizione l’”Esce” del terzo settenario, mentre “del cor” viene anticipato per motivi metrici. Tra il quinto e il sesto settenario segnaliamo anche l’unico enjambement della lirica.

Poi, con il semplice gesto della malinconia, la strofetta termina la sua funzione esplicativa, lasciando nuovamente spazio al ritornello, che risuona uguale ma diverso, con le stesse parole ma più profonde, intense e credibili, seguite dallo spazio bianco della pagina.

Dopo quanto spiegato, sembra dire l’io poetante, capisci che avevo ragione a chiederti come potessero interessarti dei versi simili? Non c’è uno sviluppo, bensì un approfondimento della situazione, affidata alla rigida circolarità del rondeau simple, che può essere una trappola per l’arte, ma anche un mezzo per innalzarne la bellezza, come purificata dalle forche caudine del metro.

La nostra opinione, lo ribadiamo, è che Alla signorina Maria A. sia una poesia nata da un felice connubio tra semplicità e raffinatezza, fornita di un’incantevole e malinconica grazia, in cui le poche ma importanti parole si caricano di senso, a riprova delle doti artistiche del Vate.

Si tratta di una lirica del tutto degna di occupare la prima posizione nel volume di appartenenza, ancora accattivante, nella sua musicalità che per certi versi ci ricorda, con quell’insieme di decantazione verbale e di malinconia, certe opere dell’ultimo Mozart.

Ma proprio il riferimento al mondo della musica e il ricordo dello stretto rapporto esistente con il genere del rondò, che risale nei secoli, come abbiamo visto, ci offre lo spunto per ricordare che gli otto settenari di Alla signorina Maria A. sono stati musicati da un maestro italiano di buon livello.

Si tratta di Marco Enrico Bossi, nato nel 1861 a Salò, sul lago di Garda, che riuscì a diventare famoso in tutto il mondo, come esecutore e compositore, godendo di una fama che non si è ancora spenta. Le sue opere per organo, infatti, sono ancora in commercio, ponendolo come un punto di riferimento per interpreti e studenti di conservatorio. Morì in circostanze tragiche nel febbraio del 1925, colpito da emorragia cerebrale sul piroscafo che lo portava in Europa da New York.

Egli ebbe rapporti con scrittori del calibro di Pascoli e d’Annunzio e come compositore viene considerato un romantico, sia pure sui generis[24], o, meglio, un tardo romantico.

Come ricorda Torquato Barbieri, nell’appendice al commento di  Valgimigli e Salinari, Le edizioni principi di Rime e ritmi, all’incirca negli stessi giorni in cui appare il volume zanichelliano, “per consenso dato dal Poeta nell’ottobre 1898- l’odicina fu pubblicata (Milano, Carish & Co., MDCCCXCIX…), con musica e versione tedesca ed inglese, dal maestro M. Enrico Bossi nei suoi Canti lirici ad una voce con accompagnamento di pianoforte, col titolo O piccola Maria e questo avvertimento: ‘Poesia e Musica dedicata alla gentile Signorina Maria Luisa Ara’”[25].

Per la precisione, si tratta dell’opera 116 n. 3 del musicista lombardo. Il testo presenta, come abbiamo già notato, il titolo iniziale, registrato anche sulla copertina dell’inserto conservato nella Biblioteca carducciana; quanto alle versioni straniere, in tedesco, grazie alla traduzione di Ludwig Hartmann, il rondò diventa O holdes Kind Maria, mentre in inglese, ad opera di Frederick W. Bancroft, si trasforma in O Faithless Little Maiden.

Segnaliamo, come curiosità, che in quest’ultima lingua la protagonista è definita “faithless”, ossia sleale; Maria ora è una signorina che ha mancato alla promessa d’amore e non vuole più saperne del suo amato, che soffre per lei. La lirica, così, cambia volto, trasformandosi nel topos del rimpianto per un sentimento non più condiviso.

La melodia bossiana è delicata e gradevole, coinvolgente, e l’opera per voce e pianoforte merita di essere riproposta, fosse anche come curiosità, come un mezzo per riportare l’attenzione sul rondò carducciano, su questa lirica atipica edita sullo spirare dell’Ottocento, che a nostro parere non ha perso nulla del suo fascino e merita di essere conosciuta da una schiera sempre più ampia di lettori.


 

[22] L. RUSSO, Carducci senza retorica, Laterza, Bari, 19582, p. 272.

[23] G. CARDUCCI, Rime e ritmi, a cura di L. Banfi, Mursia, Milano, 1987, p. 3.

[24] Su di lui si veda l’articolo di G. GRILLO DELLA BERTA, Marco Enrico Bossi il Bach valtellinese, in “Notiziario della Banca Popolare di Sondrio”, n. 68, agosto 1995.

[25] T. BARBIERI, Le edizioni principi di Rime e ritmi, in G. CARDUCCI, Rime e ritmi, a cura di M. Valgimigli e G. Salinari, Zanichelli, Bologna, 1964, p. 242.

 

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