UNA PAGINA SCONOSCIUTA DI UMBERTO FRACCACRETA

I VALORI DELLA TERRA

 

 

Qualche mese fa avevamo dedicato un articolo all’antologia scolastica “Ordine nuovo”, edita nel 1941 dalle Edizioni Sandron di Palermo-Milano. E’ un testo riservato agli studenti della nuova scuola media, da poco riformata dal ministro Bottai, che porta la firma di Petrucci, Ceravolo e Amato.

Nel libro i pugliesi sono molto rappresentati, a partire da Alfredo Petrucci, nato a Sannicandro Garganico, e dall’autore delle illustrazioni, il sanseverese Luigi Schingo. Inoltre, sono presenti anche tre contributi di Umberto Fraccacreta, due liriche, “La sementa” e “Mastro lumaio”, e un brano in prosa. Le due poesie appartengono alla raccolta “Elevazione”, del 1931, ma la pagina antologica non è inclusa in nessuna raccolta, ragion per cui abbiamo pensato di riproporla integralmente, in modo da farla conoscere ai lettori del nostro Giornale.    

          Il brano in questione è intitolato “Il volto della terra” ed è contenuto in una sezione particolarmente rilevante, che porta lo stesso titolo dell’antologia, appunto “Ordine nuovo”.

 

 

IL VOLTO DELLA TERRA

 

    L'opera agreste che tutte le altre, grandi o piccole, assomma e sovrasta, è certamente quella dei campi, che fornisce all'uomo il pane, elemento primo ed essenziale della vita. Il popolo romano fu un grande popolo perché, dopo il periodo primordiale della pastorizia, fu principalmente un popolo di tenaci agricoltori, dalla cui classe traeva i migliori e più valorosi soldati, come ci dice Catone nel suo trattato “De agri cultura” che è il più antico libro di prosa latina che noi possediamo.

    Ciò è attestato anche dagli altri scrittori didascalici latini, che la prima parte d'ogni loro opera dedicarono appunto alla coltivazione del grano, così come fece Varrone e infine Virgilio nella stupenda poesia delle Georgiche.

    Veramente Roma dovette avere un periodo di grande splendore quando, alla gloria delle armi vittoriose, congiunse la floridezza d'un agro accuratamente e intensivamente coltivato. Lo stesso Varrone, il latino che più seppe e scrisse, nel suo vivace dialogo, per bocca dell'interlocutore Fundonio, poteva infatti vantare, in confronto con la Grecia, le specialità d'ogni regione d'Italia, e dove si producesse maggior vino, o il miglior olio o il miglior grano. E dice testualmente: “O qual frumento agguaglierò io all'apulo?”.

    Roma attinse poi la ricchezza dall'Oriente, solcando con la prua delle navi le acque dei tre mari, fece del grande mare il suo mare (Mare nostrum), e decadde, perchè decadde la sua agricoltura. Ma l'Italia, ogni qual volta si riebbe dai lunghi periodi della sfortuna politica, come quello della dominazione longobardica che coprì di vaste e cupe selve anche la Puglia, ritornò sempre all'agricoltura, che della economia presente e di tutti i tempi è il fattore principale, informatore della vita del popolo italiano, sobrio, tenace e valoroso in guerra come fu il popolo latino.

    I1 nostro popolo è dunque, nel suo attaccamento alla terra, del tutto aderente alla grande tradizione classica: il genio della stirpe lo volle così, e così lo erudirono e plasmarono gli scrittori. S'intende bene però che la georgica di oggi, dopo tanto volger di tempi e dopo tante esperienze, non è più quella di Virgilio. Il semplice aratro e la leggera falce - i rudimentali arnesi sacri a Cerere e a Pale - non sono più i soli compagni dell'uomo nel lavoro dei campi; l'aratro monovomere diventa plurivomere, alla forza dei buoi viene sostituita con la motoaratura quella delle macchine; alle falci dei mietitori erranti in torme irrequiete e talvolta rissose, si sostituisce la mietitrice, e alle coppie dei cavalli, che sull'aia battevano cogli zoccoli le spighe, si sostituisce infine la trebbiatrice. In oltre un cinquantennio, dunque, nella lenta opera dei campi penetra e finisce col dominare la macchina che fischia, fuma, rumoreggia, e il contadino sposta la sua attività verso forme di cultura e di vita più elevate.

    Ma verso un nuovo stadio sociale ormai la nostra terra si incammina. Essa si trasforma ancora sotto i nostri occhi e al latifondo suc­cedono i piccoli poderi che richiamano, fissandolo alla zolla, il lavoratore che la coltivi e faccia proprio il frutto della fatica. Ed ecco che cangia nuovamente il volto della terra: le macchine s'allontanano, ad esse subentrano le braccia umane, e la famiglia colonica, radicata nel terreno profondo, cresce numerosa e nel solco si rifà più sana. Il semplice vomere e la lunata falce riprendono il loro posto in una georgica meno convulsa o affrettata, più tranquilla, e sulla nuda pianura sorge il nuovo filare della vigna, e quello dell'uliveto, e la pastorizia diventa la tibia sinistra che, in un mirabile accordo, s'unisce con la tibia destra, che è ora l'agricoltura, nella similitudine del dottissimo Dicearco, citato dall'arguto Terenzio Varrone.

    Il nostro colono lavora la terra e l'ama d'un religioso amore. Egli, infaticabile, va nel suo campo, osserva e interroga con gli occhi fissi la grande pagina che la terra, tutta rivolta al cielo, gli offre aperta, e sembra che nel tremito delle labbra egli mormori in segreto una preghiera, come dinanzi a un invisibile altare.

 

 

 

   

   E’ un brano antologico per molti aspetti esemplare, in cui domina incontrastato l’elogio dell’agricoltura. Nella prima parte troviamo un riferimento al mondo latino, così caro alla propaganda dell’epoca, ma sinceramente amato anche dal nostro Fraccacreta, che possedeva, com’è noto, una profonda cultura classica, di cui darà mostra nelle traduzioni di alcune opere latine di Pascoli.

Dall’erudito Varrone egli trae un complimento per la Puglia, come si specifica ancor più chiaramente nella nota riportata nel libro a piè di pagina, in cui si fa riferimento alla bonifica integrale e al Tavoliere.

Il benessere dell’agricoltura si identifica con quello dell’intera Italia. Roma fu grande finché amò e privilegio il settore primario, e in questo è possibile ritrovare il segno di un’antica vocazione nazionale, sempre attuale e preziosa.

Fraccacreta, che guarda in particolare proprio al suo Tavoliere, coglie i cambiamenti in atto, notando il passaggio da un’agricoltura primitiva ad una meccanizzata, fino ad una che ha il suo centro nel lavoro del contadino dissodatore, che coltiva il suo pezzo di terra con incredibile dedizione. Grazie a questo tenace sforzo “sulla nuda pianura sorge il nuovo filare della vigna, e quello dell’uliveto, e la pastorizia diventa la tibia sinistra che in un mirabile accordo, s’unisce con la tibia destra, che è ora l’agricoltura”.

Nell’ultimo capoverso sembra di trovarsi di fronte ad una versione in prosa di un passo de “Il Pane” o de “La Terra”, dove si celebra la fedeltà alla Madre Terra, la fede nella santità del lavoro, che trova sempre una ricompensa nel rifiorire delle messi, nella mietitura del grano, nella preparazione del pane, l’alimento primo ed insostituibile che è come il frutto dell’amore tra l’uomo e la terra. Questo amore è il riflesso di un altro e più grande amore, quello che Dio ha per gli uomini. In questo modo si chiude il circolo delle riflessioni di Fraccacreta e della stessa visione contadina del mondo.

Questo brano, così ricco di spunti e di suggestioni, così datato e insieme così attuale, merita un’attenta lettura.

 

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