VII- IL TRAMONTO DI VENERE

 

 

I- L'EPILOGO DEL CICLO TEATRALE

 

Con Il tramonto di Venere si chiude il ciclo delle novelle teatrali del Don Candeloro e C.i; l'opera, apparsa alla fine del 1892, sul numero speciale dell’"Illustrazione italiana", è anche l'ultima in ordine di pubblicazione.

I giudizi della critica su di essa sono altalenanti. Il Momigliano restò affascinato dalla pagina conclusiva, nella quale "la miseria di quel mestiere sanguina di una più profonda ferita"[1] (il paragone è con La serata della diva), aggiungendo, poi, che "quelle venti linee sono tra le più belle del Verga e riscattano in parte l'esagerazione comica del resto della novella"[2].

Il De Michelis, però, scriverà che "Né Il tramonto di Venere ci par degna delle alte lodi del Momigliano... essa a noi ricorda piuttosto il cinismo dell'Osteria dei Buoni Amici in Per le vie, ma fatto meccanico dal nuovo assunto del libro, di spegnere lo sdegno nella caricaturale osservazione della realtà"[3].

Più di recente, il Luperini ha posto la novella in esame tra quelle più riuscite del volume del 1894, perché "la maschera e la realtà sono messe duramente di fronte"[4], evidenziando anche l'esistenza di un processo di straniamento, consistente nel fatto che per Bibì e i suoi amici è normale abbandonare una donna a lungo sfruttata, egoisticamente. Al contrario, per il Cucinotta, "Il tramonto di Venere chiude stancamente, nel '92, la trilogia teatrale del Don Candeloro, attenuando nel patetico l'originaria tensione polemica"[5].

Posizioni, come si legge, abbastanza diverse. In generale, riteniamo che siano più nel giusto coloro che hanno sottolineato i limiti della novella, che ci sembra chiudere in discesa il ciclo teatrale, pur non mancando di una sua precisa individualità e di momenti felici, come quello conclusivo. D'altra parte, però, come La serata della diva, l'opera presenta delle pagine che non decollano e dei procedimenti narrativi a freddo, più studiati e

sovrapposti che spontanei.

La novella si chiamava originariamente Il trionfo di Venere ed entrambi i titoli, quello su rivista e quello su volume, risentono del già evidenziato chiaroscuro con La serata della diva. In quest'opera si raccon­tava, appunto, "il trionfo" straordinario di Celeste, mentre nell'altra il suo inarrestabile declino, l'altro lato della gloria artistica.

Il titolo iniziale conteneva una carica di amara ironia che dovette sembrare troppo forte allo scrittore, che ha preferito lasciare il passo ad un più pacato "tramonto", facendo emergere anche le componenti drammatiche e dolorose del testo. La scelta definitiva, in ultima analisi, rispecchia meglio i diversi elementi della novella, per cui costituisce, secondo noi, un progresso artistico.

Tanto sfolgorante è stato il successo della dea Celeste, splendente di gloria, quanto scialbo e crepuscolare è ora il declino di Leda, in cui il ricordo del felice passato è tutto finalizzato ad accentuare la tristezza del presente. Lo stacco tra le due dimensioni temporali, insomma, è abissale, specie considerando che la protagonista non ha più un futuro.

Leda è una vinta, senza possibilità di miglioramento, mentre il mondo sorride a Bibì, a dispetto del suo ridicolo nomignolo, una donna impietosamente accostata a Venere, dea dell'amore, simbolo dell'aspirazione umana alla bellezza.

Anche questo riferimento mitologico va inteso in funzione dell’accentuazione del contrasto tra passato e presente, come termine di paragone per una ballerina di successo, che era al culmine della notorietà e della bellezza, che "regalava le sue scarpette smesse ai principi del sangue e del denaro" (pag. 766), mentre ora è costretta a dover subire la concorrenza delle serve del vicinato, con "il lezzo di sottane sudicie che egli le portava in luogo di violette di Parma" (pag. 767).

 

 

II- LA MITOLOGIA E IL MELODRAMMA

 

Leda resta Venere fino alla fine, nelle parole di Bibì, ma dopo essere stata posposta all'ultima delle mortali, oltre che, ovviamente, alla dea Fortuna, come si legge nella pagina d'apertura ("...e lui aspettava filosoficamente la dea Fortuna al Caffè Biffi, dalle 5 alle 6, nell'ora in cui anche le matrone s'avventurano in Galleria- oppure tentava di sforzarla- l'instabil Diva- a primiera o al bigliardo, tutte le notti che non consacrava alla dea Venere, come chiamava tuttora la sua Leda, quand'era fortunato alle carte o altrove, o quando non la picchiava, per rifarsi la mano", pag. 766).

Possiamo dire, insomma, che Verga affonda in profondità il bisturi descrivendo le sofferenze della sventurata e utilizzando in chiave ironica anche la mitologia, un uso che non si limita solo alla dea dell'amore. Lo stesso nome Leda, ad esempio, ha ascendenze mitologiche, visto che è lo stesso della donna amata da Zeus, che le si accostò assumendo l'aspetto di un cigno, un mito che si ritrova anche in un celebre quadro di Leonardo da Vinci.

Allo stesso ambito si riferisce il personaggio di Creso, il mitico re della Lidia che aveva ottenuto di trasformare in oro tutto ciò che toccava, salvo poi pentirsene amaramente ("L'indegno era arrivato al punto di fare oltraggio ai vezzi per cui aveva delirato... per cui i Cresi della terra avevano profuso il loro oro. Le rinfacciava adesso, brutalmente: -Dove sono questi Cresi?", ivi).

Ancora fortemente ironico è l'altro ricorso al mito, quando Leda, dopo l'insuccesso al Carcano, litiga con Bibì, gelosa di Noemi. La donna "Schiz­zava fuoco e fiamme dagli occhi, lei, colle ciglia ancora tinte e il rossetto sulla faccia, così come si trovava all'uscire dal teatro, una Furia d'Averno" (pag. 771).

Non manca, infine, un riferimento all'Eden, al Paradiso terrestre, per una donna che aveva fatto breccia persino nel cuore di alcuni prelati. L'Eden finisce per trasformarsi nel talamo di un geloso principe, dove si consuma un amore tutt'altro che spirituale. Leda e Bibì, però, non usano la necessaria prudenza e così il principe si trasforma nel Dio irato della Genesi, che scaccia Adamo ed Eva dopo l'atto di disobbedienza.

Anche in questo caso la donna ha un ruolo importante, come Eva nel racconto biblico, venendo allontanata con il suo uomo dal luogo della beatitudine, dove godeva di una importante e autorevole protezione ("Tanto che Sua Altezza, seccato alfine da quelle fanciullaggini, degnò aprire un occhio, e li scacciò dall'Eden", pag. 768).

Più evidente, però, è la presenza di termini legati al mondo del melodramma. Prima di tutto la Traviata verdiana, citata esplicitamente da Bibì nella pagina finale della novella, quando rievoca l'incontro con Leda ("Ieri, sentite questa, vo sin laggiù a Porta Nuova, apposta per lei, con questo caldo, e trovo la scena della Traviata:- «O ciel morir sì giovane...»", pag 774). L'egoista Bibì, che mira a nascondere agli amici il dramma reale della donna, sottolinea la sua finzione, affermando che si immedesima nella parte di Violetta.

In precedenza troviamo "Amor, sublime palpito" (pag. 768), che si rifà all'aria di Alfredo, nello stesso melodramma, ed è un intervento ironico dell'autore. D'altra parte, lo stesso Bibì viene presentato come "giovin studente e povero" (pag. 767), riprendendo il Rigoletto del maestro di Busseto, mentre l'allusione è all'Aida, nelle supplichevoli parole del protagonista maschile ("Un'ora!... e poi morire!", ivi).

Sprezzantemente ironico e del tutto prosaico, di fronte alla poesia del testo originale, è invece il riferimento alla celebre aria della Norma, posto in bocca a Leda ("Che sono capace di andare a romperle il muso, alla tua casta diva!", pag. 772).

L'ultimo esempio notevole è costituito dalla "furtiva lagrima" (pag. 774) di Bibì, che nell'Elisir d'amore donizettiano rappresenta il momento della sincerità, e che nella novella viene invece stravolto e dissacrato. Adina nella stupenda opera giocosa rivela in questo modo il suo amore per Nemorino, che è felicissimo e canta nell'aria la sua gioia, mentre Bibì recita la sua parte al cospetto dei suoi degni compagni, come vedremo in seguito.

Il melodramma si insinua nel testo (nel quale non mancano, d'altra parte, termini studiatamente plebei), non solo con citazioni da opere famose, ma anche con precisi echi del suo linguaggio manierato e sdolcinato. Si pensi ai "vezzi" (pag. 766) di Leda, ma anche alle vicende dell'idillio dei due protagonisti, ricco di "ogni fanciullaggine" (pag. 767), per riprendere il termine usato dal Verga, un repertorio che si ritrova a piene mani nei libretti che hanno segnato la storia della musica operistica italiana.

L'uso non è di per sé una novità, ma si registra anche nelle prime tre novelle del Don Candeloro e C.i, con frequenti riferimenti all'Opera dei pupi e alla Partita a scacchi giacosana. In questi casi, però, c'è un rapporto diretto tra i personaggi e le citazioni, dal momento che si tratta di attori professio­nisti come Candeloro Bracone, Martino, Violante, Olinto e Rosmunda; ne Il tramonto di Venere, invece, la protagonista è una ballerina classica e Bibì uno scroccone vissuto alle sue spalle.

Inoltre, non si assiste a nessuna rappresentazione, come ne La serata della diva, dove però le citazioni sono molto più limitate. Tutto ciò attesta la peculiarità della novella, in cui il linguaggio melodrammatico, come quello mitologico, viene utilizzato in funzione dissacratoria, pur non essen­do una diretta proiezione dei personaggi, anche se esso non è del tutto avulso da essi.

Leda e Bibì infatti hanno vissuto nel mondo degli artisti, hanno conosciuto tanti cantanti lirici ed assistito a rappresentazioni melodrammatiche, per cui quel linguaggio li ha in un certo senso condizionati.

Il risultato finale è quello rendere più dura e definitiva la condanna della società, nella quale tutto si riduce a finzione ed egoismo, calcolo opportunistico e disinteresse verso il prossimo: una verità che risalta ancor più dal confronto con le melliflue e stereotipate frasi e con le situazioni del mondo della lirica, del tutto inadeguato a rappresentare, se non per via ironica, gli effetti di una tragedia.

E' molto significativo che sia Leda che l'amante si rifacciano a quella sfera linguistica, "artisti l'uno e l'altra" (pag. 771), li definisce il testo, partecipi, ovviamente in modo diverso, di questa realtà di ipocrisia.

 

III- LEDA, LO SFONDO MILANESE E BARBETTI

 

Parlando di Leda, il pensiero non può che ritornare, oltre che a Celeste, ad Eva, sulla base di evidenti analogie, a partire dal fatto che entrambe sono delle ballerine, anche se la prima è "del genere classico" (pag. 770), mentre l'altra è di varietà.

L'ambiente in cui vivono ha alcune caratteristiche in comune ed entrambe le donne si innamorano di un artista spiantato, giunto in città in cerca di fortuna. Bibì era "venuto dal fondo di una provincia, ricco solo di entusiasmi, per imparare musica, o pittura- una bell'arte insomma" (pag. 767), finendo per diventare un mantenuto di lusso; Lanti invece è un pittore, che riesce ad ottenere un certo successo, anche se a costo della sincerità ispirativa.

Il secondo è senza dubbio più apprezzabile e umano dello spregevole personaggio de Il tramonto di Venere, ma alla fine vedremo che il pittore si spegnerà tristemente nella sua terra nativa, mentre l'altro apparirà un vincitore, secondo la squallida legge del mondo.

Il cammino di Leda ed Eva è all'incirca uguale, fino a poco più di metà del romanzo, e precisamente fino all'abbandono di Enrico da parte della ballerina della Pergola, con delle motivazioni per noi interessanti: "Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale" (pag. 313).

Eva è famosa e acclamata nelle prime pagine, poi sacrifica ogni cosa per amore di Enrico, ma i problemi economici allontanano sempre più i due, finché la donna decide di troncare la relazione. Essa si comporta all'inizio da Leda, poi però riesce a trovare la forza per scuotersi, diventando più scaltra e abile nello sfruttare le possibilità che le si presentano.

Quando ricompare in scena, nelle vesti dell'amante del conte Silvani, Eva è diventata come Celeste, una donna cinica, anche se non arida, piena fascino e invidiata. Possiamo dire, in fondo, che il personaggio del romanzo comprende, nella sua personalità, i due opposti di Leda e di Celeste.

Il declino di un personaggio femminile era stato descritto dall'autore anche nel ciclo di racconti I ricordi del capitano d'Arte, dove Ginevra appare sulla scena come una donna fatale, per spegnersi, alla fine, minata dalla tubercolosi. Nelle sette novelle, in fondo, si descrive, con una narrazione di più ampio respiro, una parabola esistenziale simile a quella concentrata ne Il tramonto di Venere.

Ginevra è affascinante e desiderata da tutti, pavoneggiandosi nella società d'élite in cui vive ("Essa s'era lasciata corteggiare anche da me perché non stonassi nel coro, perché tutti le facevano la corte...", pag. 610), incline ad abbandonarsi alla passione e al sentimento, ma il suo splendore di donna cede, in Ciò ch'è in fondo al bicchiere, al malinconico tramonto.

Gli amici si dileguano, mentre lei cerca di attaccarsi disperatamente alla vita, anche a costo di illudersi. L'epilogo è doloroso, ma accompagnato da una certa solidarietà da parte degli amici ("Parecchi ci avevano perduto anche la testa, un tempo, e parlavano di lei che moriva, a voce bassa, prima di tornare al Circolo o al teatro, facendosi piccini dinanzi al marito che ripigliava il suo posto in casa sua", pag. 677), che sarà invece negata a Leda, segno che Verga si è incattivito ancor più nella descrizione della realtà sociale.

Il tramonto di Ginevra, dai tratti commossi, basato su di una narrazione obiettiva, non trova seguito in quello della ballerina, così carico di ironia, anche se le due eroine hanno dei tratti in comune, a cominciare dalla loro mancanza di abilità, secondo le leggi del mondo, e dalla tubercolosi, visto che il "canchero, un diavolo al petto" (pag. 774), dovrebbe essere proprio un'allusione alla tubercolosi, vero flagello dell'epoca.

Ovviamente, il riferimento principale resta sempre Celeste, in un attento studio delle miserie e degli splendori del mestiere dell'artista, capace di regalare grandi soddisfazioni, ma anche di emarginare spietatamente chi non riesce più a primeggiare.

Come ha notato il De Michelis nella citazione compresa nel primo paragrafo, Il tramonto di Venere presenta qualche elemento di contatto con le novelle milanesi, ed in effetti lo scrittore definisce con una certa cura lo sfondo geografico dell'azione, battendo su alcuni importanti punti di riferimento, a differenza de La serata della diva.

Si pensi alla Scala, il celebre teatro richiamato sin dal titolo de In piazza della Scala, in Per le vie; in Via crucis appare "il teatro sfavillante di lumi" (pag. 441), in Amore senza benda il tempio dell'arte viene citato da due protagonisti e anche nella novella estravagante I dintorni di Milano se ne parla come di un insostituibile punto di riferimento. Ne Il come, il quando e il perché la partecipazione agli spettacoli della Scala rappresenta un segno di distinzione imprescindibile per l'alta classe ("Non aveva il coraggio di dirmi che non poteva più comperarmi né cavalli, né palco alla Scala, né gioielli, nulla!”, pag. 885).

        Nell’opera candeloriana viene menzionato anche il teatro Carcano, considerato di grande importanza, dove Leda si esibisce, ma senza molta fortuna, tanto che si contano molti posti vuoti; ne L'osteria dei Buoni Amici il locale ospita un veglione carnevalesco, dove si recano i protagonisti.

Il Caffè Biffi, invece, dove Bibì passa il suo tempo ed incontra i suoi amici, si ritrova in un'altra novella milanese, Primavera. Il contesto è molto significativo, dal momento che il pianista Paolo, venuto in città per fare fortuna, spende una grossa cifra per portare la fidanzata proprio in quel locale, un lusso che invece l'amante di Leda poteva permettersi regolarmente (l'uomo "era là, al solito, in trono fra gli amici", pag. 770). Ne Il bastione di Monforte, invece, incontriamo un triste personaggio che "Più tardi forse andrà a pranzare con una tazza di caffè e latte fra gli specchi e le dorature del Biffi" (pag. 362).

Non manca, poi, una menzione per la Galleria, luogo d'incontro per eccellenza, che Verga cita più volte, in un contesto sfarzoso e lieto, come ne I dintorni di Milano, ma anche doloroso, come in Via crucis e in Al veglione, dove viene descritta la Luisina, che si era riempita di acciacchi e dolori, vendendo il caffè di notte, nel suo interno.

Ne L'osteria dei Buoni Amici ritroviamo il quartiere popolare del Verziere, dove era vissuta Leda prima di diventare famosa ("-Allorché era in bestia la signora Leda sbraitava tal quale la sua portinaia, e vomitava gli improperii che aveva inteso al Verziere, quando stava da quelle parti", pag. 772), mentre l'ultima rimarchevole nota ambientale ce la suggerisce il Tellini, a proposito di Porta Nuova, dove si trova l'ospedale nel quale è ricoverata Leda, ossia "l'ospedale Ciceri o Fatebenesorelle, allora riservato alle donne"[6].

La milanesità dell'opera, insomma, è indiscutibile e chiaramente evidenziata, con molti rinvii alla "città più città d'Italia" (pag. 856), come viene definito, ne I dintorni di Milano, il capoluogo lombardo.

Estraneo al contesto geografico è invece il riferimento al Pincio, il giardino romano posto sul colle omonimo, mentre altri luoghi vengono citati come ne La serata della diva, in riferimento alle tournée della ballerina.

Nell'ambito delle rispettive novelle Leda e Celeste hanno un ruolo molto importante, com'è facile comprendere, ma la seconda ha un rilievo pressoché assoluto, mentre Leda, pur essendo il personaggio fondamentale, appare sempre insieme a Bibì e la sua vicenda esistenziale si svolge in sua compagnia, dalla quale non vuole separarsi.

Al contrario, invece, Barbetti ritorna ne Il tramonto di Venere, in una parte più ridotta, pur essendo sempre un mercenario della penna ("Da un mese, Barbetti e tutti gli altri giornalisti che vendono l'anima a chi li paga, non facevano altro che rompere la grazia di Dio con quel nome della Noemi stampato a lettere di scatola", pag. 769).

Il passo è filtrato attraverso il disappunto di Leda, che poco dopo rincara la dose, incontrandolo in teatro. L'uomo le appare particolarmente antipatico, dal momento che è una testimonianza vivente del suo declino, come già in parte visto nel sesto capitolo. Barbetti è salito sul carro della vincitrice, decretando il trionfo della nuova diva. Ne La serata della diva l'uomo aveva salutato con un'adulazione la comparsa della diva del ballo "La stella", mentre ora con Leda dà sfogo al suo carattere arrogante e sarcastico, che però sa distinguere con attenzione tra persona e persona.

Leda ha appena ricevuto uno sgarbo, è stata allontanata dalla stanza dove l'impresario e il coreografo stavano parlando in gran segreto di un nuovo ballo, come una qualsiasi ballerina; Barbetti, che ha visto il suo stato d'agitazione ed ha intuito tutto, la punge in profondità. Il meccanismo di ricerca e di consolidamento del consenso, visto all'opera a favore di Celeste, conosce ora il suo lato oscuro, viene ripreso dalla parte della perdente, di colei che subisce gli effetti negativi del sistema. Un tempo i titoli dei giornali erano dedicati a Leda, che ora è "ridotta a correre dietro le scritture e i soffietti dei giornali, cogli stivalini infangati e l'ombrello sotto il braccio” (pag. 766).

Lo stesso si può dire per i protettori di Noemi, influenti e facoltosi, mentre a Leda non rimaneva che l'infido affetto di Bibì, che la sfrutterà fino alla fine. Nel complesso, con questa fugace apparizione Verga completa la sua vendetta nei confronti della categoria alla quale appartiene Barbetti. Chissà se Verga pensava a qualche operatore dell'informazione in particolare! Di certo, parecchi dovettero ritrovare molte proprie caratteristiche nel personaggio.

A tal proposito, può essere interessante ricordare quanto ebbe a scrivere Ojetti in Cose viste, a proposito del suo riserbo: "Affabile era ma lontano, con tutti. Anche il suo pranzo l'ordinava al cameriere in segreto e quello si curvava per udirlo. Giovanni Pozza... lo chiamava il tenebroso, cospiratore[7]. Da un uomo come Verga, che non era affatto l'ideale per un giornalista in cerca di notizie, è naturale che nascesse un personaggio come

Barbetti.

 

 

IV- LO SPREGEVOLE BIBI'

 

E’ fin troppo facile definire Bibì uno tra i personaggi più odiosi descritti dal Catanese, un uomo nel quale la cornice raffinata non fa che amplificarne il cinismo e l'amoralità.

Egli è uno sfruttatore senza scrupoli, che dimentica ben presto le sue umili origini, per adattarsi alla nuova realtà sociale. Il testo sottolinea impietosamente che "La più bell'arte, per lui, fu di saper conquistare, senza spendere un quattrino, il cuore di Leda" (pag. 767), altrimenti, si capisce con chiarezza, sarebbe rimasto un povero diavolo per tutta la vita, privo di un lavoro e di alcuna attitudine artistica.

Tra gli artisti in cerca di fortuna, più che Paolo di Primavera ed Enrico Lanti di Eva, ci sembra ora il caso di ricordare il giovane amato da Assunta in Artisti da strapazzo. Questi, dopo aver lasciato il suo paese, alloggia nella casa della famiglia della donna, e lì, utilizzando il fascino della musica del pianoforte e le sue arti, riesce a sedurla, ma quando essa resta incinta, sfugge alle sue responsabilità e fa perdere le sue tracce. "-Un bel porco, quel tuo allievo del Conservatorio!" (pag. 540): così Gennaroni commenta la vicenda, che è all'origine delle disgrazie di Assunta.

Bibì, invece, pur essendo altrettanto privo di valori, resta con Leda, ma solo perché trova il suo tornaconto, visto che la ballerina è ricca e famosa. All'inizio è il giovane ad infatuarsi della diva, quando non era ancora irrimediabilmente corrotto e possedeva dei lati sentimentali nel suo carattere.

Come altri personaggi, la maturità coincide con la perdita di ogni valore. Prima era suscettibile, tanto da costringere Leda ad usare mille precauzioni, e molto geloso ("E le care scene di gelosia, e le paci più care!", pag. 767), in seguito si integra perfettamente nel mondo artistico. Possiamo paragonarlo, cum grano salis, al Re di cuori, all'ingenuo giovane che contempla con uno sguardo pieno di passione Celeste, ne La serata della diva; Leda, a differenza della cantante, se ne innamorerà e ricambierà le attenzioni, vincendo anche la timidezza di lui, invano nascosta dallo scher­mo delle parole.

Comincia, così, l'apprendistato artistico di Bibì, che tratta con persone importanti e viaggia per il mondo, imparando che talvolta bisogna eclissarsi, per prudenza, ma non  rinuncia ancora alla gelosia e al suo onore di uomo (“Le stesse scene di gelosia sembravano combinate apposta per infiorare quel paradiso, come una carezza all'amor proprio di entrambi, una protesta dignitosa dell'amante, e una delicata occasione offerta all'amata di tornare a giurargli e spergiurargli la sua fede", pag. 768). Registriamo, in guesto modo, un comportamento simile a quello di Martino, ne Le marionette parlanti, che finisce progressivamente per accettare di buon grado il comportamento di Violante.

Bibì si rivelerà un irriconoscente, per cui, dopo aver sognato l'amore di Leda, lo disprezzerà, una volta ottenuto, pur tenendosi stretti tutti i vantaggi ad esso legati.

Passata la fase romantica ed ingenua, dopo aver completato il suo apprendistato artistico, Bibì mostrerà il suo volto peggiore. Egli non esita a tradire in ogni modo la donna un tempo amata, per guadagnare del denaro o delle importanti protezioni, circuendo qualche matura e facoltosa signora, o per il fascino del richiamo femminile, arrivando a corteggiare persino Noemi, la rivale di Leda.

Con queste infedeltà, talvolta anche gratuite ed umilianti, svela il suo cinismo e la sua bassezza senza limiti; ironicamente il testo rimarca che era, "a parte l'interesse, un cuor d'oro in fondo" (pag. 772), e a lui la donna continuava a mandare i proventi degli spettacoli che riusciva ancora a trovare, in locali di second'ordine. Per giunta, Bibì è un usuraio ("ne aveva avuto del giudizio, è vero, e un po’ di soldi aveva messo da parte, col risparmio e gli interessi modici, tanto da render servizio a qualche amico, se era solvibile", pag. 773), che finisce per avere dei problemi anche con la Questura.

Egli è il classico individuo che vuole apparire rispettabile, ma in fondo è profondamente corrotto. Vestito in maniera impeccabile, elegantissimo, ben curato persino nei baffi, che si lascia crescere secondo la moda dell'epoca, frequentatore del bel mondo milanese, incarna uno dei modelli reali, al di sotto del velo della finzione, della società.

La critica dell'ipocrisia nell'opera di Verga si ritrova in molte opere, ininterrottamente, e basta citare il protagonista de Il bell'Armando, in Vagabondaggio, che sfrutta una persona di facili costumi, ma molto più ricca di umanità e degna di rispetto; alla fine la abbandona per contrarre un matrimonio d'interesse con una donna ricca. La Mora, come viene chiamata, reagisce accoltellando il bell'Armando, che però si salva, mentre lei verrà condannata all'ergastolo.          

L'uomo, che si fa scudo persino della santità del matrimonio, “col sorrisetto ironico e la giacchetta nuova" (pag. 579), ha, sia pure in un contesto sociale del tutto diverso, alcuni tratti in comune con Bibì. Verga utilizza la stessa tecnica, isolando le protagoniste, la Mora e Leda, mentre la società è solidale con gli uomini, del tutto corrotti e abili nel salvare l’esteriorità.

La solidarietà verso Bibì sarà espressa soprattutto dalla sua cerchia di amici, artisti con i quali passa il tempo libero nel Biffi, persone abituate, come tutte, anzi più di tutte, a recitare continuamente, sul palcoscenico come nella vita di tutti i giorni. La prima scena ambientata nel caffè milanese, dove Leda si reca, dopo una cocente delusione, è fortemente emblematica.

Essi "per far la corte a lei e a lui, cominciarono a dire ira di Dio della Noemi- che non aveva scuola- che non aveva grazia- che non aveva questo e non aveva quest'altro. Già l'avevano tutti quanti a morte con l'Impresa che lasciava disponibili i migliori soggetti" (pag. 770). E' una commedia ben architettata, che però non inganna nessuno dei presenti, anche se questo non spinge alcuno alla sincerità.

Bibì, così, si sforza di apparire tranquillo, mentre è inquieto, per via dei danni economici che potrebbero derivargli, e Leda, che poco prima era visibilmente agitata, si mostra sorridente, per non dare soddisfazione agli infidi colleghi. Gli amici della coppia sono di un certo livello, ma si comportano esattamente come quelli di Artisti da strapazzo, che passano il tempo in un oscuro caffè, a parlar male degli assenti, evidenziando i fiaschi altrui.

Ne Il tramonto di Venere, andata via Leda, il comico Scamboletti non risparmierà neppure una battuta di bassa lega alla ballerina, sapendo che Bibì, che era "un gentiluomo", non sarebbe stato troppo permaloso.

La commedia recitata dai due amanti nell'opera anticipa quella de Gli innamorati, nello stesso volume del 1894, e viene minuziosamente descritta.

Bibì, che riceve dagli amici il soprannome di "Re di picche" (pag. 771), ossia un uomo di nessuna importanza, viene addirittura fatto pedinare da Leda, per sorvegliarne le azioni. I due, dopo "la commedia delle paci e delle tenerezze" (ivi), si tengono d'occhio reciprocamente, e la donna cerca di "scoprire il dietro scena nel repertorio delle sue tenerezze" (ivi). L'insincerità è assoluta e il rovesciamento dei gesti romantici che avevano segnato l'inizio della relazione viene rimarcato utilizzando un linguaggio fortemente teatrale.

Gli sviluppi della relazione tra Leda e Bibì vedranno di nuovo impegnati gli amici, nelle vesti di pacieri, favorendo un ulteriore rappacificamento, ma del tutto formale, della coppia di conviventi; infine, nella riuscita scena conclusiva, sarà a loro che Bibì riferirà della visita fatta a Leda, nell'ospedale dov'è ricoverata.

Ancora una volta tutti si ritroveranno a recitare all’unisono, parlando di una tragedia senza soluzione, quella della ballerina, in un ambiente elegante e disimpegnato, tra caffè e partite a carte. Davanti a loro, Bibì si appresta ad interpretare la scena madre dell'abbandono definitivo ("Non ci torno più, parola d'onore!", pag. 774).

Già altre volte, preparandosi il terreno, aveva riferito di quelle visite, che "gli turbavano la digestione, gli facevano venire le lagrime agli occhi, e non era commedia, no, quando ne parlava cogli amici, al caffè" (pag. 773). Invece il contesto ironico rimarca che si tratta proprio di una finzione, che vede tutti in sintonia, ognuno nel proprio ruolo.

Bibì, che vive agiatamente e può permettersi persino una cuoca, si pone dalla parte delle persone sensibili e facilmente commovibili, arrivando fino al punto di sottolineare il concetto: "Una cosa che stringe il cuore, chi ne ha! L'avreste creduto, eh? Lei abituata a dormire nella batista!..." (pag. 773-74).

Ovviamente tutti i presenti sono, come lui, dei buoni e dei giusti, che riflettono amaramente sulle condizioni di Leda, "ridotta che non si riconosce più" (pag. 774), poi Bibì passa anche a dei benevoli rimproveri ("E delle pretese poi! Certe illusioni!... Non si dà ancora il rossetto?", ivi), simulando un atteggiamento compassionevole, con l'esclamazione "Misera umanità!" (ivi), prima di dilungarsi sul resoconto della visita del giorno precedente, in cui i piani della realtà appaiono più che mai profondamente stravolti.

L'uomo si reca appositamente per lei all'ospedale, "con questo caldo" (ivi), e il dramma profondo e reale di Leda viene descritto esasperando al massimo le debolezze umane della ballerina. Nella ricostruzione è la donna che recita la "scena della Traviata" (ivi), che prova con “la parte tenera” (ivi), mentre è evidente che la vena di finzione che si ritrova nel comportamento di lei non è frutto di malafede, ma del tentativo di sfuggire squallida realtà che la circonda.  

Essa, per l'amante di un tempo, ha delle pretese assurde, dal momento che vorrebbe essere portata via da lui. La narrazione è sapientemente orchestrata e arriva al punto di gettare sull'estremo gesto di disperazione della ballerina ("Ella si rizza come una disperata, afferrandomi pel vestito, baciandomi le mani...", ivi) un velo di pietosa commiserazione.       

La donna, lascia intendere Bibì, è capace di tutto ed offre uno spettacolo troppo toccante per lui, che è rimasto lo stesso uomo di sempre, disponibile e generoso, mentre la ballerina è irrimediabilmente cambiata. 'atto più tragico della donna, pertanto, diventa il maggiore sostegno del suo egoismo, con un ragionamento coerente nella sua logica perversa, tipico di un mondo degradato, nel quale lo scrittore affonda impietosamente il bisturi.

        Il Momigliano ha scritto che "Durante la descrizione Bibì si commuove: ma anche lui è vissuto così a lungo sul teatro, che ha senza saperlo le pose del commediante; sicché il suo discorso diventa un po' una parte: «E vedendo che ci voleva anche quello, dalla faccia degli amici, Bibì asciugò una furtiva lagrima»"[8].

La finzione è anche un'abitudine inconsapevole, com'è facile com­prendere, ma il giudizio ci sembra troppo benevolo nei confronti dell'uomo, che è ben più cinico e lucido attore di quanto traspare dalle parole del critico e che nel finale non inizia la sua recita, ma la porta a conclusione.

La commedia di Bibì non è simile a quella delle altre volte, ma è finalizzata alla volontà di non recarsi più da Leda, per liberarsi definitivamente dell'incomoda presenza; anche non prendendo alla lettera le sue parole, quando afferma che non andrà più a farle visita, si capisce che ha in animo di abbandonarla sempre più al suo destino e per questo la sua narrazione diventa più ipocritamente drammatica del solito.

Il suo comportamento provoca, di conseguenza, una più forte simula­zione di dispiacere negli amici, che traspare dal loro volto e diventa, a sua volta, uno stimolo per andare oltre. Bibì simula doppiamente, quando versa una lacrima che non è frutto di commozione e quando vuole dare l'impres­sione di non volerla versare, una mossa da maestro, che gioca sull'ambiguità del pianto, spia del cuore, ma anche mezzo d'inganno, segno di debolezza ma anche di perfidia.

La lacrima, inoltre, rinvia ad una sfera infantile o femminile, e non a caso nell'Elisir d'amore è Nemorino a sorprenderla sul viso di Adina, che svela così il suo sentimento amoroso, con estrema sincerità. Bibì, insomma, non esita ad usare l'artificio della lacrima per fingere un profondo sentimento, quale avrebbe dovuto realmente provare per Leda, che langue in un letto d'ospedale.

L'ipocrisia ha le sue leggi, le sue convenzioni, le sue istituzioni sociali, e un gentiluomo deve rispettarle, per aggirare la sostanza di un'assoluta mancanza di valori. Per abbandonare una donna sfruttata nel corso di molti anni c'è bisogno di qualcosa di più della semplice narrazione della visita, e questo il lucido protagonista lo capisce immediatamente, suggellando, così, con grande efficacia la sua commedia.  

Verga nella narrazione si premura di farci capire il suo dissenso, si dissocia dal coro dei personaggi, e ce lo ha comunicato, in questa novella come nelle altre, riducendo l'azione ad una farsa, chiudendo la scena sul dissacrante pianto di Bibì e sul suo stravolgimento.

Sembrerebbe quasi che il dramma vero sia quello degli artisti riuniti nella sala del Biffi, ma tutti quanti sono dei privilegiati, benestanti che vogliono difendere i propri gretti interessi, mentre Leda percorre la triste china del tramonto.

 

V- IL FILO DELLA BALLERINA

 

Una chiave di lettura de Il tramonto di Venere, proposta esplicitamente dal Verga, ci porta direttamente alle due prime novelle, ispirate al teatro dei pupi. Il dramma di Leda, infatti, sotto mutate spoglie, non è altro che quello di Bracone, il quale fa muovere tutti a suo piacimento, per poi diventare sempre più una marionetta che, alla fine, viene accantonata.

La donna, infatti, all'apogeo della sua fama, "teneva legato al filo dei suoi menomi capricci quasi una testa coronata" (pag. 767), un nobile ridotto al rango di suddito, pur essendo un facoltoso principe. La rinuncia a lui da parte di Leda sarà uno dei suoi tanti errori, nella convinzione, che doveva rivelarsi fallace, di avere ancora tanti fili da muovere, esibendosi nei teatri di tutto il mondo.

Il secondo momento sarà rappresentato dalla riduzione a pupo della ballerina, che Bibì "teneva legata ad un filo, come essa ne aveva tenuti tanti, uomini seri, ed uomini forti, che in mano sua sembravano delle marionette" (pag. 772). Uno stacco abissale con il passato, propiziato da un capriccio che una diva non doveva permettersi.

L'ultima fase, anche se non esplicitamente rimarcata nella novella, è quella dell'abbandono, quando Bibì rifiuterà di muovere i fili della donna, non ritenendolo più utile.

Letta in questa chiave, la storia della protagonista si snoda parallelamente a quella di don Candeloro,       dall’illusione della divinità fino all'inarrestabile declino, dal dominio della scena, destando l'ammirazione di tanta gente, pronta a tutto per compiacerla, al fallimento. Di natura sentimentale è anche l'errore dei due personaggi, delusi nelle proprie aspettative da Grazia e Bibì, due affari sbagliati, insomma. 

Accanto al chiaroscuro di Celeste, quindi, nell'ultima opera del ciclo teatrale possiamo anche ritrovare il dramma candeloriano dell'uomo che pensa di poter dominare la realtà e invece diventa un oggetto nelle sue mani.

Questo processo di reificazione viene analizzato dal Verga illuminando tutti i lati più prosaici del personaggio di Leda, come anche, del resto, di Bracone, i suoi momenti rabbiosi e dolorosi, fino a quello che viene suggestivamente definito il "calar del sipario" (pag. 173). La diva perde ogni splendore e viene descritta nella sua rabbia impotente, mentre litiga continuamente con Bibì, cercando di tenere legato a sé l'uomo, che ha ormai ribaltato le parti del rapporto, e di risalire la china artistica, ovviando ad un duplice "tramonto".

Il terzo quadro della novella si apre proprio su questo sussulto d’orgoglio di Leda: "Basta, ora si trattava di non farsi sopraffare da quell'intrigante della Noemi, che le rapiva agenti ed impresari... E le portava via anche Bibì, il quale si dava il rossetters ai baffi, e si metteva in ghingheri per andare ad applaudirla, gratis et amore" (pag. 768-69). Don Candeloro farà un simile tentativo, introducendo i personaggi in carne ed ossa, con eguale risultato.

L'occasione ritenuta propizia, il "Gran Poema storico-filosofico-­danzante" (pag. 769), sul quale Verga non risparmia la sua ironia, si trasformerà invece in una cocente delusione, che contribuirà a convincere Leda dell'impossibilità di ogni riscossa. Anche nei confronti dell'impresa­rio e del coreografo le parti si sono invertite e ormai la ballerina non può scegliere liberamente quel che voleva interpretare. Di qui la violenza verbale e, addirittura, la volgarità, di cui fa mostra nelle pagine seguenti, molto più che nella pepata risposta all'ironico Barbetti.

Nel suo linguaggio plebeo, la ballerina dimentica del tutto di essere stata una diva, e l'amante, da parte sua, non ha riguardo per il passato di lei, "buttando in aria ogni cosa, dediche, omaggi, ritratti e corone sotto vetro, tutto quanto v'era in salotto" (pag. 772), senza esitare ad usare la violenza fisica, nei confronti della "brutta bestia" (ivi).

In questo contesto, Noemi, la diva del momento, rappresenta per Leda, dolorosamente, la memoria del passato ormai trascorso, la gloria invano rincorsa, dopo averla persa, che ora risplende nella sua rivale, una sorta di specchio della verità, che riflette il suo declino.

Come Celeste, la ballerina in auge ha tutti intorno a sé, "bestie e animali tutti quanti, che non sapevano neppure dove stesse di casa il vero merito!" (pag. 771). Sembra di sentire ancora don Candeloro, sdegnato verso i suoi rivali, che gli sottraevano implacabilmente i clienti, costringendolo a spiantare il teatro, e Noemi, del resto, che prende tutti "all'amo" (ivi), rappresenta una variazione dell'immagine del filo del marionettista, già evidenziata.

Le analogie tra il puparo e la ballerina in declino si susseguono nella condanna al vagabondaggio negativo. Dopo l'insuccesso della recita al Carcano, Leda, che ha  perso sempre più il senso delle proporzioni, con la sua gelosia e i suoi rancori, inizia un lungo giro per il mondo, non come prima, nei teatri di maggiore importanza, bensì in piazze di secondo rilievo, "in America, in Turchia, dove poté, giacché al giorno d'oggi soltanto laggiù sanno conoscere ed apprezzare le celebrità" (pag. 773).

L'ironia della narrazione richiama ancora un altro passo del Don Candeloro e C.i, dove, a proposito del puparo, si dice che "Se c'era ancor un po' di buon senso e di buon gusto dovevasi andare a cercarlo in provincia” (pag. 722).

In verità, in entrambi i casi, siamo di fronte ad un ripiego obbligato. Leda sfrutta fino in fondo la sua passata notorietà, dopo aver calcato il palcoscenico della Scala e del San Carlo, rassegnandosi ad ogni sorta di compromesso; alla fine del suo estenuante vagabondaggio, però, si ritrova più povera di prima, completamente tagliata fuori dal mondo degli spettacoli, e pertanto la stasi finale non coincide affatto con un miglioramento delle sue condizioni, ma con l'esclusione definitiva da quello che era stato il suo ambiente naturale.

La china della donna passa attraverso l'apertura di una scuola da ballo e delle nuove speculazioni di Bibì: in poche righe, così, l'autore prepara il momento in cui la marionetta Leda avrà terminato il suo triste spettacolo. Contrapponendo i due destini, quello della ballerina, che è un’artista "senza giudizio" (pag. 773), e quello dell'uomo, che invece "ne aveva avuto del giudizio" (ivi), ricco dei proventi di parassita e di usuraio, si introduce naturalmente il racconto di Bibì, nel quale, come abbiamo visto nel paragra­fo precedente, tutto viene stravolto.

L'uomo, sensibile e generoso, per così dire, ha deciso di non tornare più all'ospedale, applicando quel "giudizio" di cui aveva dato prova tante volte, ricavando dalla vita rispetto e stima. E' la stessa saggezza di Nanni Lasca, in Vagabondaggio, quando sposa Filomena, e di Martino, quando siede alla mensa dei protettori di Violante, senza pensare ad altro.

Leda, al contrario, che spera ancora nella riconoscenza dell'antico amante, ci lascia con un'ultima immagine, particolarmente drammatica e significativa, quando si alza dal letto d'ospedale e cerca di afferrare Bibì, baciandogli convulsamente le mani.

Il suo è l'estremo tentativo di restare vicino all'uomo con il quale aveva vissuto per molti anni, un marito di fatto, vista la lunga convivenza; la ballerina, che si umilia senza più ritegno, rimarca definitivamente l’importanza di Bibì, tanto più grande dal momento che nella novella non si parla mai né di parenti né di veri amici.

Leda è una perfetta solitaria, legata al suo uomo da un amore esclusivo, mentre questi ha già organizzato diversamente la sua vita, refrattario alla sua disperazione, stravolta secondo la logica del suo egoismo, che nel periodo finale è di stampo schiettamente machiavellico: non conta possedere la virtù, bensì simulare di averla.

 

 

 


[1] MOMIGLIAN0 A., Impressioni..., cit., pag. 193.

[2] MOMIGLIAN0 A., Ivi.

[3] MICHELIS E., cit., pag. 207.

[4] LUPERINI R., Giovanni Verga, cit., pag. 117.

[5] CUCINOTTA C., cit., pag. 111.

[6] TELLINI G., cit., tomo II, pag. 410.

[7] OJETTI U., Cose viste, 1928-1943, Sansoni, Firenze, tomo II, pag. 292-93­.

[8] M0MIGLIANO A., Impressioni..., cit., pag. 194.

 

    Torna alla scheda del libro