SETTE SONETTI DI SHAKESPEARE TRADOTTI DA SERRICCHIO

DALL'INGLESE AL DIALETTO DI MONTE SANT'ANGELO

 

Quando si parla dei sonetti di Shakespeare, siamo tutti portati a pensare alla “dark lady” o al “fair friend”, con tutto il carico di discussioni e di allusioni che da quattrocento anni si accompagna alla pubblicazione di questo classico della letteratura. Chi erano i due personaggi appena citati? E che rapporti avevano con Shakespeare? E, risalendo a ritroso, Shakespeare è esistito realmente e si chiamava così? Potremmo continuare a lungo con le domande, ma servirebbe a poco. La questione resterà sempre aperta, per la gioia dei critici e dei filologi.

Ma come suonano i sonetti del poeta inglese nel dialetto di Monte Sant’Angelo? A questa intrigante e curiosa domanda offre una risposta Cristanziano Serricchio, che ha appena pubblicato un libretto intitolato “Sette sonetti di Shakespeare” (Sentieri Meridiani, Foggia, pp. 40, euro 5). Il lavoro, inserito come undicesimo titolo nella collana “Le diomedee”, diretta da Daniele Maria Pegorari, italianista dell’Università di Bari, presenta alcuni dei più famosi sonetti di Shakespeare, con una doppia traduzione, una, più prevedibile, in italiano, ed una, decisamente più inedita, nel vernacolo di Monte Sant’Angelo.

La scelta del dialetto della città di San Michele non è casuale, visto che proprio lì è nato Serricchio, nel 1922, anche se ormai da decenni risiede a Manfredonia. Ma il vernacolo, si sa, è la lingua delle origini e si porta con sé come un leggero bagaglio, anzi, come una fertile eredità.

Nella prefazione, Anna de Simone ha giustamente collegato questo lavoro di traduzione-ricreazione di Serricchio con le liriche vernacolari presenti nel volume “La prigione del sole”, del 2009, edito dalla romana Marietti, che ha ottenuto un notevole riscontro critico, a partire dalle pagine introduttive del grande poeta Franco Loi. Serricchio rivive i sentimenti del poeta inglese, appropriandosene nel migliore dei modi, con grande finezza.

Da notare la disposizione dei testi. Il libretto presenta, com’è normale, in prima posizione la versione inglese, ma subito dopo c’è quella dialettale, relegando quella in italiano in terza posizione. E’ un modo per sottolineare le intenzioni artistiche di Serricchio, che vuole dimostrare la forza del vernacolo montanaro, in grado di rendere la concretezza di certe immagini di Shakespeare, ma anche il suo amore per i giochi di parole, per le antitesi e i bisticci.

Il primo sonetto presentato ai lettori, il diciottesimo, ha un incipit famoso, “Shall I compare thee to a summer’s day?”, ossia “Ti paragonerò dunque ad un giorno d’estate?”. Lo stesso verso diventa “T’arrija paravuné a nnu jurne de statìie?”, ed è una versione che regge il confronto e soprattutto apre degli orizzonti inediti al lettore, mettendo a confronto due mondi diversissimi, che trovano una mediazione, per così dire, nel testo in italiano. Ogni traduzione, si sa, è un tradimento, per riprendere un vecchio modo di dire, è la perdita di un’armonia alla ricerca di un’altra, ma è un’operazione indispensabile, per tanti motivi, e che arricchisce il lettore.

Di qui, insomma, il pregio di questo lavoro, che mostra fin dove possono giungere i dialetti pugliesi, le lingue povere dei nostri avi, riscoperte e riportate in auge, in un contesto storico e letterario totalmente diverso. E’ la nuova giovinezza di queste parlate, che “arranne lustre e vvita tèrne”, ossia “che avranno luce e vita eterna”, per riprendere la conclusione dello stesso sonetto 18 di Shakespeare, a dispetto del passare del tempo e della fine della mitica civiltà contadina.

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