PREFAZIONE

 

 

    Francesco Giuliani, dopo varie pubblicazioni di carattere culturale e letterario, si ripresenta al pubblico dei lettori con questa nuova ricerca sull’ultima produzione poetica del Carducci (nel 1999 pubblicò, infatti, presso lo stesso editore, un suo lavoro sugli idillii alpini del poeta maremmano). Di Rime e ritmi egli prende in esame quattro testi, mostrandone la vitalità e l’interesse, anche in rapporto alla poesia nuova che, tra la fine degli anni Ottanta-Novanta, fu rappresentata dal Pascoli e dal d’Annunzio.

    Ad aprire Rime e ritmi è il rondò Alla signorina Maria A. (1887), poesia che Giuliani analizza evidenziando l’importanza della poetica della malinconia, leit-motiv dell’ultima produzione carducciana: la poesia nasce da un animo che avverte il peso degli anni, ben al di là del dato biografico, e la vecchiaia si contrappone alla giovinezza della signorina alla quale è dedicata.

    Il rondò, nato nel 1887 a Courmayeur, è un metro assai raro nella letteratura italiana. Nella sua riscoperta, però, Carducci viene preceduto di poco dal d’Annunzio, che pubblica nel 1886, prima su rivista e poi successivamente nel volume Isaotta Guttadauro ed altre poesie, vari rondò, di tono e di forme, però, diversi da quello carducciano.

    L’Autore del saggio si preoccupa di fare un articolato confronto tra i testi, giungendo alla conclusione che proprio d’Annunzio ha probabilmente spinto Carducci a rifarsi al rondò, solo che Carducci riprende il tipo più antico, risalente al Due-Trecento, richiamandosi così fedelmente allo schema originale francese.

    Della poesia alcaica Nel chiostro del Santo (1887), scritta in occasione della visita del Carducci alla basilica di Sant’Antonio, Giuliani analizza le redazioni (la prima, in sei strofe, di cui si ricostruisce la storia e la lezione sulla scorta del materiale cartaceo bolognese; la seconda, in quattro strofe, ma più cupa e gravida di un senso di smarrimento di fronte all’infinito), sottolineandone la vena più pacata e dimessa, nei confronti del mondo religioso, in precedenza invece investito di aspre polemiche: è un Carducci che sente la morte come un’esperienza sempre più vicina e non astratta. Il risultato poetico è, nota giustamente Giuliani, “straordinario”, pregno di “viva attualità”.

   Ad evidenziare il tono malinconico dell’ultimo Carducci è anche la notissima poesia Jaufré Rudel, che racconta la storia dell’“antidoto impossibile”, ossia dell’amore come vano rimedio al dolore dei giorni. Di qui, soffermandosi anche sui documenti più recenti sull’argomento, l’attenta analisi della romanza, scritta in novenari, un verso riscoperto dal Carducci, sgombrando la via a Pascoli, il quale, com’è noto, prediligerà sempre il novenario. E’ una lirica– osserva Giuliani- che batte sulla ricerca di un fine nella vita, per il quale si può anche morire, senza alcun rimpianto. Rudel, infatti, morirà da vincitore, con in cuore un sogno molto alto e difficile da realizzare: la felicità!

    L’ultimo testo preso in esame dall’Autore nel libro è Presso una Certosa, lirica oggi tornata di attualità. Giuliani ricostruisce la storia di questa poesia soffermandosi, tra l’altro, sul titolo provvisorio, Estate dei morti, che “rivela, attraverso la lirica Novembre, gli influssi di Carducci su Pascoli, ma anche di questo su quello”, evidenziando che la Certosa descritta dal poeta non è quella di Bologna, ma rappresenta “un simbolo, un luogo dell’anima”, dove il poeta può levare la sua laica preghiera al padre Omero, confermando la sua fede nella poesia e negli scrittori classici.

 

 

    Ritornano insistenti, anche in quest’ultima poesia di Rime e ritmi, gli accenti mesti, presenti del resto un po’ in tutta la raccolta, scanditi dal gioco dialettico di luci ed ombre e dalla fede nel valore alto della poesia, che può dare sollievo, anche se momentaneo, all’inesorabile sopraggiungere della morte.

    L’avventura di una vita così intensamente vissuta, fatta di umori ed abbandoni nostalgici, oltre che di ideali e battaglie, sta ora per concludersi e il poeta si congeda da tutti, parafrasando il tono cantilenato e lene dello stornello popolare (“Fior tricolore,/ Tramontano le stelle in mezzo al mare/ E si spengono i canti entro il mio cuore”); e nell’Epistolario (XXI, Bologna, 1960, p. 222) esplicitamente confesserà: “Perché ora, tanto del fisico come del morale, sono proprio affranto: la macchina è forte e potente, ma la malattia ha ripetuto i colpi e sempre li rinnova. Sarà quel che Dio vuole[…] Credevo d’incontrare il mio fine sereno e senza contrasti, ma ahimè! la fine è e più vuol essere amara per me e per quelli che sono parte migliore di me[…] Direi che nulla mi manca, che gli amici e i buoni han cercato di circondare d’ogni cura la mia vecchiezza…Ma mi sento mancare il meglio. Ahimè!”.

    Questi toni dell’ultimo Carducci riscattano il poeta dall’accusa di eloquenza e di troppo insistita letterarietà presenti nelle sue opere: al fondo di ogni ripiegamento su se stesso v’è una grazia malinconica e pacata di affetti intimi, una segreta vita poetica all’insegna del dolore e della solitudine. E’ quanto vuole dimostrare Francesco Giuliani con questa sua attenta, puntigliosa analisi.

    E’ una poesia nutrita di tratti umani e gentili. Non siamo più di fronte a “proposte di poesia impetuosa e difficile”, come giustamente ha osservato Walter Binni, non ci imbattiamo più nel “gesto robusto ed enfatico del ‘grande artiere’”, ma avvertiamo “una grazia più pacata di affetti intimi e poco ambiziosi”, “una visività che pur sapeva creare i paesaggi alpini di fronte ai quali l’animo e la fantasia erano ancora sensibili e inventivi” (Carducci e altri saggi, Einaudi, Torino, 1960, pp. 45-46).

   Una rilettura carducciana diventa, pertanto, necessaria, poiché ad influenzare l’assenza di un ritorno al poeta maremmano è stato sicuramente un giudizio generazionale, protrattosi troppo a lungo ed ancora oggi duro a morire. E’, però, parere unanime della critica ammettere che il realismo della parola e il grande esercizio metrico-stilistico carducciani hanno aperto la strada alla poesia successiva.

     Nel Carducci di Rime e ritmi, accanto al poeta vate, celebratore di virtù morali e civili per la Patria, c’è anche un poeta più intimo, più raccolto e malinconico. Non a caso un latinista del calibro di Antonio La Penna, vari anni fa, accostò finemente a quest’ultima opera poetica carducciana il quarto libro delle Odi di Orazio, in cui, ai più ambiziosi e non sempre riusciti tentativi di poesia romana e pindarica, si accompagnano componimenti di intonazione più intima, che sono le cose più felici del libro. Si pensi, ad esempio, per il Carducci, alle due elegie dell’incontro con Annie o al tema della fresca solitudine e della bellezza della montagna che si ha in Mezzogiorno alpino.

     Una rivisitazione del Carducci è dunque tanto più necessaria, perché si possa riprendere, in tempi come i nostri, così confusi e vuoti di poesia e di valori autentici, un colloquio tra la forte tempra del maremmano e le giovani generazioni.

 

        Università di Pescara, 23 settembre 2001     

        Giuseppe De Matteis

 

    Torna alla scheda del libro