IL MERITORIO LAVORO DI FRANCESCO GIULIANI 

IL GARGANO, UN "SOGNO MERIDIANO” DELLA SCRITTURA

        

          

            Quanti sono i tasselli di una letteratura ‘meridiana’? Metterli in fila, trovare un ordine, individuare le giunture e gli snodi è un lavoro che merita, di per sé, attenzione, e da molti anni ormai Francesco Giuliani sta componendo un mosaico di straordinario interesse – nell’ambito di un’“opera” saggistica che lambisce, tocca e attraversa la modernità – per comprendere il difficile e infermo disegno di una “piccola patria” del Sud, fra Tavoliere e Gargano. Un disegno che sembra delinearsi in principio con le splendide vedute delle città che accompagnano la descrizione del Regno di Napoli dell’abate Giovan Battista Pacichelli (Il Regno di Napoli in prospettiva, 1703), e in particolare dal terzo tomo dedicato alla Capitanata (che figura insieme ai due Abruzzi e al Molise), e che prosegue seguendo diverse traiettorie, in varia misura intrecciate nei volumi Viaggi letterari nella pianura (2002), Occasioni letterarie pugliesi (2004), Saggi, scrittori e paesaggi. Nuove occasioni letterarie pugliesi (2005), Viaggi novecenteschi in terra di Puglia (2009), ed emerge con monografie approfondite nell’edizione de Il Gargano di Antonio Beltramelli (2006) e Alfredo Petrucci. Le lettere, il Gargano e lo scrittore (2008)[1]. La ricostruzione di Giuliani non è sistematica, anzi possiamo dire che non ami proprio la sistematicità; cerca invece il dettaglio, e non tralascia la divagazione erudita ma sagace. Ogni volume riserva delle sorprese, documenti inediti, accostamenti stranianti, che rendono il panorama culturale di una provincia meridionale periferica, quale la Daunia – solcata a sud dalla Via Appia, e da Nord a Sud dall’ antica via adriatica – estremamente vivace.

             Il “viaggio” di Giuliani comincia, dunque, dalla pianura («uno spazio aperto… proteso verso i lontani orizzonti, che fa avvertire, con le sue strade rettilinee, il bisogno o la tentazione della fuga, della ricerca di qualcosa di nuovo o di meglio»[2]), ma ha un prologo emblematico nel saggio Carducci in provincia, dedicato alla celebrazioni commemorative per la morte del grande poeta a San Severo. Carducci è come un padre lontano, assente, ma vivo nell’animo dei suoi numerosi cultori sanseveresi, nella loro consapevolezza di uomini gettati nel nuovo secolo, in balia della modernità, privi di antenati illustri. L’importanza culturale, prima ancora che letteraria, della figura di Carducci per l’Italia umbertina è nota; ma è significativo come essa si imprima anche nei luoghi in cui non ha mai concretamente soggiornato. È un modello che si ripete altre volte, fino al caso clamoroso di Montale, che sembra non sia mai passato da Foggia, se non in “sogno” (in Clizia a Foggia). Non basta evidentemente il Viaggio elettorale di Francesco De Sanctis a risvegliare il sentimento di una provincia ancora lontana da una propria identità letteraria, in grado di partecipare al senso della patria. Diversamente da quanto avviene, invece, in altri luoghi del Mezzogiorno, che tra Otto e Novecento, grazie in particolare ai narratori (da Capuana a Verga alla Deledda), riconoscono, all’interno di un orizzonte nazionale, anzi europeo, più articolato, il senso decisivo dell’“appartenenza” a un luogo, a un territorio, a un Sud possibilmente lontano dagli stereotipi turistici.

         Ingeneroso non rievocare alcuni nomi, sia pure di scorcio, come Mario Carli, Umberto Fraccacreta, Emanuele Italia, Pasquale Soccio, Nino Casiglio, Mariateresa Di Lascia, Giuseppe Cassieri, che a diversa altezza nel Novecento, e da differente angolature della propria storia personale, lasciano tracce sensibili nella riacquisita coscienza letteraria di un luogo che non può vantare nobili natali. Quel che muove scrittori e giornalisti a venire sull’“isola” montuosa, apparentemente immobile nei secoli, il Gargano, attraversando una regione – quella della Capitanata – che vede una serie di profonde trasformazioni del tessuto socio-economico, sono alcuni temi precipui (dal brigantaggio al paesaggio a Padre Pio) della imagerie del Mezzogiorno, e in particolare il senso del “ritorno” che in alcuni autori, innesca riflessioni all’ombra del “pensiero meridiano” (e a Franco Cassano Giuliani dedica un capitolo in Occasioni letterarie pugliesi): "Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera"[3].

         Quasi cursoriamente, in una rassegna dei più importanti libri di Cassano, Giuliani sembra trovare l’ago magnetico di una ricerca che impegna tutto il fronte della cultura locale in uno sforzo di uscire dal magma di un passato assopito in archivi privati, chiuso in una teca di studi elitari, dimenticato, e di entrare in una visione più dinamica delle tenui ma molteplici reti che hanno consentito anche a una provincia del Sud di apprendere a parlare di sé, e forse a sognare.

         Che cosa può sognare questa provincia? Innanzitutto una terza via (spiega Giuliani), “mediterranea” in senso etimologico, fra il mare-oceano e la terra continentale, ovvero fra una via che apre allo «sradicamento» e al «nichilismo» e una che indica «la chiusura sulle proprie radici, l’imperialismo aggressivo, il fondamentalismo». Il meridiano pugliese consiste nel senso di relatività e decentramento, elasticità e pragmatismo, senso di identità e curiosità e rispetto del diverso. Tanto basta a farci apprezzare pagine tanto diverse, quali sono le amorose note paesistiche di Pasquale Soccio nel celebre Gargano segreto, attentamente filtrate da modelli letterari, quasi nel tentativo di colmare, nell’arco di qualche decennio (quanto passa fra la prima e l’ultima edizione del volume, fra il 1965 e il 1999), la «scarsa letteratura», avrebbe osservato Piovene nel suo Viaggio in Italia, sullo splendido promontorio. In effetti, la linea ferroviaria che all’inizio del Novecento unisce la Capitanata alla rete in via di edificazione, facendo di Foggia uno snodo importante, taglia via di netto il Gargano, e sembra che debba lasciarlo ancora, per lungo tempo, lontano dai circuiti consueti del turismo di massa. E lo stesso accadrà con la sistemazione, nella seconda metà del Secolo, della rete autostradale: la scoperta del Gargano, da parte del turismo di massa, è solo rimandata. Dunque, fino agli anni Sessanta, non di turisti occasionali, ma di visitatori colti e attenti si deve parlare: le pagine di Beltramelli, Baldini, Bacchelli, Alvaro, Piovene, Brandi, senza dire delle testimonianze, meno note eppure di grande interesse, di Nicola Serena di Lapigio (Panorami garganici 1934) e di Kazimiera Alberti, scrittrice di origine polacca (Segreti di Puglia, 1951), si dispongono come un’intensa cornice di voci intorno agli ampi saggi degli scrittori ‘nativi’, cioè Michele Vocino, Alfredo Petrucci e Pasquale Soccio, i quali restituiscono i paesaggi garganici all’incessante percorso di una storia diversa, lontana da una modernità che rastrema voracemente ogni antica consuetudine, ogni tradizione. In qualche modo Gargano segreto di Soccio chiude, alla fine del secolo scorso, con i suoi ripetuti e significativi aggiornamenti redazionali, l’immagine del promontorio come in un “sogno”, anzi sembra che lo fissi a un sogno di scrittura che risente ancora, a distanza di anni, dei «fermenti stilistici dei primi decenni del secolo riassunti e cristallizzati nell’espressione “prosa d’arte”»[4], e quindi di una bellezza interiore del paesaggio, recuperata con pazienza negli angoli più remoti del “luogo”, strappati alla nuova incomprensibile lingua del presente.

             Il viaggio non si conclude qui, ovviamente. Esso, piuttosto, pare rimandare alle origini, e riportare alla memoria il testo che inaugura la “visione” del Gargano, e forse il suo sogno di scrittura: dico Il Gargano di Antonio Beltramelli (1879-1930), un libro oggi commovente, di cui Giuliani propone l’edizione a distanza di quasi un secolo[5].

        

 

         Giornalista infaticabile, curioso, ma anche umile, discreto, nel 1905 Beltramelli intraprende un viaggio nel Gargano. Allora il promontorio è una regione dolce e ispida nello stesso tempo, spoglia e boscosa, montuosa e marina; quasi affatto priva di strade e di alberghi, ma spontanea e cordiale per la semplicità dei suoi abitanti; malarica intorno ai laghi di Lesina e Varano, ma famosa per la bontà dei suoi frutti e, in particolare, fiera delle dimensioni internazionali del commercio agrumario nella regione costiera, tra Rodi e Vieste[6]; una regione senza sviluppo né prospettive (disoccupazione, emigrazione, denutrizione dei bambini), appartata in una silenziosa e misteriosa “sotto storia” (per dirla con Pasolini) che fa da controcanto alla belle époque del primo Novecento. Sotto l’umile povertà del Gargano trapela, agli occhi di Beltramelli, una fede e una vitalità silenziosa, di cui Giuliani sottolinea sfumature e ambivalenze. Beltramelli si accompagna fiducioso alle guide locali e non ignora quel che è stato già detto o scritto sul Gargano, cercando una mediazione tra diversi punti di vista.

          Il paesaggio è un’avventura, e il viaggio un modo di leggere la vita degli uomini che, insieme agli animali (fra questi un’attenzione particolare va al maiale, caro ai bambini) e alle piante (individuate con una acrimonia nomenclatoria, come avrebbe desiderato Pascoli, conterraneo del Beltramelli), abitano questo paesaggio affatto nuovo. Non a caso il libro si apre con una straordinaria descrizione del Tavoliere, colto al volo da un veicolo in corsa (come in una scena di Ombre rosse: piena canicola, tutti dormono nella ‘corriera’, ma il nostro viaggiatore registra attentamente sul quaderno le sue impressioni), che ostenta un’ambizione sontuosa di ricercatezza, alla D’Annunzio per intenderci (che agli inizi del Novecento era un modello di stile giornalistico), e comunque non rinunciano a risolvere scene e vedute in un enigmatico ardore di colpe ereditarie, folli presenze, leggende ancora fresche: così, intorno a Foggia, «pochi alberi tisici sorgono qua e là sopra le case basse, simili a torri monche e il sole l’abbraccia, l’inonda, la stringe tutta nella sua raggiera di fuoco».

           Ma a trasformare questo libro di viaggio in un libro ancora in viaggio verso il presente, così diverso e spesso indifferente, è proprio la meditazione sul tempo trascorso in quelle mute esistenze mai esaltate dalla storia, o in quei paesaggi mai sfiorati, per tanti secoli, dall’arte e dalla poesia. Sono molte le pagine a proposito, di grande suggestione narrativa, che mi piacerebbe ricordare. Senz’altro colpirà l’attenzione del lettore quella in cui Beltramelli descrive la sua visita al convento dei Cappuccini di San Giovanni Rotondo, prima dell’arrivo di un giovane Francesco Forgione. Scrive Beltramelli: "Il convento sorge in un breve pianoro prossimo alla cresta dei monti; è tutto cinto di cipressi e di roveti. Il piazzale è deserto. Sotto due querce s’innalza, sopra una base a tre gradi, un’antica croce tutta nera nell’ombra; accesa a pena, lungo la sagoma, dalle lontane luminosità del mare. È un grande silenzio, una pace che invade e suade il cuore a raccoglimento; vicino e lontano, tutto è deserto intorno, tutto riposa quasi converso alla mistica calma di questo eremitaggio. Due cavalli brucano al limite del piazzale, sotto le querce; paiono grandi, scolpiti sui cieli […] Tutto è lindo e bianco; non v’è traccia del tempo; un pallido candore è su queste vecchie mura. (p. 74)

          Il viaggiatore picchia «sommessamente» all’uscio del convegno, ma nessuno risponde; gli «pare di avvertire lo strisciar lieve di un passo, ma è un inganno dei  sensi troppo intenti all’intesa forse, poiché la porta non si dischiude»; quindi due «voci lontane, che risuonano come sotto un’ampia volta di tempio, due voci gravi che non mutano tono e si diffondono in tutto il silenzio e ne traggono echi, vibrazioni; è tutta una solitudine remota che si risveglia a quel suono» (ibidem). Poi le voci «sfioriscono», il cielo impallidisce verso la sera, gli alberi sono più neri. Il viaggiatore conclude: "Vorrei riposare in questa solitudine non so quanto tempo, senza pensare più, senza udire più se non qualche voce buona di vecchio, qualche voce che suada al riposo. Vi sono luoghi ed ore nei quali si raccoglie l’infinita nostalgia che è nell’anima nostra turbolenta; luoghi ed ore che aprono grandi porte su l’improvviso silenzio dell’anima nostra e ci fanno dubitare". (ibidem)

        Così, nel 1907, Beltramelli sembra presagire una nuova visione del Gargano. Di una terra che, oggi, dalla memoria dei tanti suoi occasionali visitatori ritorna in quella dei diversi lettori, risvegliando un vivo e, per quanto mi riguarda, laicissimo senso di affetto mistico, contemplativo, e prefigurando il sogno – quel sogno di scrittura – che pure eroso, contaminato dalle inquietudini di un futuro già alle spalle, ci portiamo dentro.

         SALVATORE RITROVATO

Il saggio è oggi incluso nel volume Piccole patrie (Stilo, Bari, 2011, pp. 55-61)



[1] Tutti editi presso le Edizioni del Rosone, nella collana diretta da Benito Mundi, “Testimonianze”.

[2] F. Giuliani, Viaggi letterari nella pianura, introduzione di G. Giuliani, prefazione di D. Cofano, Edizioni del Rosone, Foggia 2002, p. 73.

[3] F. Cassano, cit. in F. Giuliani, Occasioni letterarie pugliesi, Edizioni del Rosone, Foggia  2004, p. 278.

[4] C. Siani, Pasquale Soccio, in T. Rauzino – G. Talamo – C. Siani, Figure egemoni del Novecento. Del Giudice, Maratea, Soccio, Schena, Brindisi 2006, p. 86.

[5] A. Beltramelli, Il Gargano, a cura di F. Giuliani, introduzione di B. Mundi, Edizioni del Rosone, Foggia 2006.

[6] Si veda S. D’Amaro, Il nostro Adriatico. Dall’una all’altra sponda, Schena Editore, Fasano 2006.

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