SULLA RIEDIZIONE DI MORIRE DI SPERANZA DI GIUSEPPE ANNESE

 di Domenico Cofano

    

    La Puglia, per una serie di ragioni, che vanno dalla scarsa presenza di forze intellettuali vivamente inserite nel circuito peninsulare alla strutturale marginalità delle nostre imprese editoriali, dalla tradizione prevalentemente erudita e prammatica delle nostre classi colte alla diffusa e comoda tendenza a privilegiare i modelli forti e tranquillizzanti, come ha rilevato spesso Michele Dell'Aquila, è stata, per larga parte del Novecento, pur con tutte le correzioni del caso, una terra sitibonda anche in campo letterario, e soprattutto poetico. I nostri poeti si sono, infatti, spesso limitati a riproporre, in modi sostanzialmente retorici, i modelli imperanti della letteratura nazionale, perpetuando i riti di una tradizione anacronistica e retrodatata, senza farsi per nulla turbare dalla dinamica veloce dei mutamenti sociali, senza avvertire la necessità di introdurre elementi di fertile provocazione nel clima pigro e sonnolento della regione, di ricercare nuove forme d'arte capaci di testimoniare la profonda crisi di ideali e di valori della società, e, insomma, nuovi modi di presenza intellettuale.

      Ma, mentre i più, come spesso avviene, rimanevano appagati dagli antichi modelli e si condannavano al trionfo locale, alcuni evadevano, fisicamente, o mentalmente, verso piaghe più ariose e consonanti, alla ricerca di una stupefacente libertà di spazi e di orizzonti, di una tormentata possibilità di percorsi alternativi, e anche di un nuovo linguaggio che fosse il segno della propria disarmonia esistenziale, dell'ansia di sbocchi eversivi mai praticati, di valori oppositivi in cui credere; dell’aspirazione, in sostanza, ad una vera e propria palingenesi.

    In questa direzione, nella direzione cioè di un nuovo serrato confronto con le trasformazioni in atto nella società, di un riposizionamento delle frontiere culturali della piccola patria della Capitanata, si muove la generazione che ha operato negli ultimi decenni del secolo; in questa direzione si muove, più precisamente, accanto a quella di Enzo Verrengia e di Enrico Fraccacreta, nel campo della narrativa, e accanto a quella di Francesco Granatiero e di Sergio D’Amaro nel campo della poesia, per citare solo alcuni dei nomi che mi vengono in mente, l'attività letteraria di Giuseppe Annese, che ebbe il suo exploit con un romanzo sperimentale, Macerazioni divertenti, coevo all’avanguardia del Gruppo ‘63, in cui tocca il suo culmine la mescidazione dei livelli stilistici e la caleidoscopica e frizzante ricchezza di materiali e di aneddoti che mirano a dare il senso inquieto della realtà caotica in cui maturano la formazione e la disfatta sentimentale di un giovane e macerato intellettuale meridionale, della razza dei maledetti; di quella razza dei maledetti cui fu felicemente ascritta anche Mariateresa Di Lascia, che in Passaggio in ombra, pubblicato postumo nel 1995, metaforizza, attraverso la storia esemplare di Chiara, vittima definitiva ma irrisolta del «ciarpame» della sua vita, il fallimento delle illusioni e delle speranze degli anni giovanili, ma segna anche lo scacco del vano tentativo della letteratura di ritrovare nell'esplorazione di sé la risposta alla bancarotta dell’ideologismo degli anni Settanta.

    A completare e rinverdire il profilo del singolare scrittore, che fu autore anche di un romanzo satirico, Serenità in agguato, pubblicato dalla Jaca Book nel 1975, e ambientato nel mondo delle agenzie pubblicitarie, in cui lavorò con successo, giunge ora, nella collana «Testimonianze», questa terza edizione di Morire di speranza, che segue quella del 1985, patrocinata dall‘Amministrazione Comunale di San Severo e quella, del 2000, curata da Michele Trecca, un protagonista della cultura pugliese che mi è particolarmente caro, un sismografo sensibilissimo che è capace di registrare anche le scosse minime della narrativa contemporanea.

 

   

 

    Se si avverte la necessità della riedizione di un’opera è senz'altro per via di una persistente richiesta del mercato, ma anche perché, forse, ci si rende conto che la situazione complessiva della cultura regionale è progredita e che, dunque, il libro può parlare con rinnovato vigore, può essere letto con occhi nuovi.

    A condizione che ci sia una guida esperta, come Francesco Giuliani, che ci aiuti a penetrare negli inquietanti meandri di una scrittura difficile e complessa, sospesa fra la ricerca di una colta musicalità e l’ontologica cripticità di un registro tumultuoso, di un rapinoso e violento vortice di immagini che conseguono a volte esiti espressionistici.    

    Un compromesso stilistico, una convivenza bipolare di linguaggi che riproduce, in qualche modo, la irrisolta condizione esistenziale e intellettuale dell’autore, che non a caso ripropone, nei titoli, ma anche nelle sue opere pittoriche, come acutamente rileva Giuliani, l’efficacia retorica dell’ossimoro, della contraddizione: la serenità può costituire una trappola insidiosa (Serenità in agguato), le macerazioni possono essere anche divertimento (almeno agli occhi di chi, come ebbe a notare Andrea Pinketts, sa essere ad un tempo semplice e complesso), si può anche morire di speranza. Si può soprattutto quando, al fondo, domina la certezza dell’impossibilità di ogni epidermica conciliazione con il mondo, quando ci si accorge che il mondo non è altro che una teoria di gloriosi fallimenti: allora meglio spezzare il cerchio, meglio ricostruirsi il proprio destino di disperazione e di sofferenza, riconquistare la propria solitudine nella prigione del molteplice (per dirla con Yeats egli è «straniero a questa solitaria, maestosa moltitudine»); meglio dare per simboli la condizione di estraneità che costituisce il proprio segreto paesaggio interiore.

    Una poesia antinomica, dunque, che non risolve il suo dualismo cercando di rifarsi un Eden impossibile, ma ritrovando la sua liricità nella stessa assurdità del mondo che rappresenta.

      Opportunamente, dunque, Francesco Giuliani, riunificando i suoi precedenti studi su Giuseppe Annese, coglie i rapporti di continuità che corrono fra i suoi versi e la sua opera narrativa, non solo sul piano degli sviluppi autobiografici e degli accadimenti esistenziali (l’approdo a Milano viene giustificato, per esempio, nel romanzo, con il bisogno di far conoscere le poesie), quanto, più significativamente, sul piano dei temi e della poetica: da un lato la caratterizzazione di Matteo, il protagonista del romanzo, come personaggio dai rapporti paraffinici con la realtà, ossia incapace di stabilire un rapporto pacificato con il mondo; dall’altro la tendenza ai trapassi temporali continui, il ricorso a quelle associazioni mentali che costituiscono una caratteristica anche dei componimenti poetici; da ultimo la citazione, nel pastiche linguistico e stilistico del romanzo, di versi delle stesse poesie. Quello sperimentalismo stilistico e linguistico, quella plurivocità di voci si manifestano, infatti, anche nelle liriche, e, segnatamente, nel caso emblematico della Ballata della fanciulla invecchiata a Sud, percorsa dagli attriti stridenti dell’inglese.

      Di questa intima relazione fra la poesia e la narrativa di Annese, della complementarità dei procedimenti espressivi, al di là delle inevitabili differenze tonali, si era del resto acutamente accorto Nino Casiglio, del quale in Appendice viene riportato un saggio che coglie efficacemente i tratti distintivi dell’irrequieto e giovane intellettuale. E chi meglio di Casiglio, i cui romanzi, carichi di umori ironici e satirici, scandiscono metaforicamente la storia di alcuni emblematici fallimenti, poteva cogliere il disagio esistenziale di questo autore che conduce la sua battaglia per la demistificazione dei luoghi comuni, che soffre tutte le dissonanze della vita, che rifiuta i miasmi di un costume immobile e putrefatto, che vive il disincanto della delusione ideologica, che, come è stato detto per Leopardi, protrae nel tempo la condizione psicologica dell’adolescente che si affaccia all’esistenza reale e la viene scoprendo a poco a poco nei suoi aspetti duri e prosaici, di fronte ai quali si appanna e svanisce il fragile tessuto delle illusioni e delle speranze?

      In virtù di quelle illusioni e di quelle speranze, aveva cercato di sottrarsi al ritmo grigio e routinario della sua condizione di borghese, cercando altri cieli, fisici e metaforici, in un’ansia inappagata di libertà, e, come si evince dal varo della rivista «Budd», che trovò il consenso di Ennio Flaiano, che ad Annese fu legato da una vivissima simpatia e da un fraterno umore antiborghese, e come si proclama in un manifesto programmatico del '71, fatto circolare tra intellettuali e professionisti milanesi d'area socialista, in un ristoro della funzione dell'intellettuale, che doveva «non berla più», vale a dire doveva assumere una posizione di radicale contestazione degli «idoli di merda» che avevano irretito i cervelli, di «meditato rigetto» di ogni ideologia che significasse un «sistema chiuso, autoritario e preordinato di domande e risposte», e di ritrovamento di uno spazio di indipendenza per una cultura operante «non più ricattabile dalla interessata voracità della collocazione partitica» e sottratta ai «virus del consenso pilotato».

       Sentite con quale ottocentesca chiarezza Francesco Giuliani riassume il senso della vicenda umana del giovane ribelle:

       «Giuseppe Bernardo aveva bisogno di placare la sua esuberanza e la sua insoddisfazione giovanile, ma il suo mondo meridionale di provin­cia sembrava non dargli respiro, [sembrava] opprimerlo in una quiete che doveva sapere di morte, di abbandono […] Annese, come capirà dopo, cercava qualcosa che non avrebbe trovato, neppure tra le nebbie della capitale industriale d'Italia, malgrado le sue opzioni politiche di uomo di sinistra, che avrebbe voluto ancorare ad un'ideologia il suo dolore esistenziale».

   

       

       Quel dolore esistenziale il fuoco generatore di Morire di speranza, una raccolta di straordinaria modernità, che Giuliani ha il merito di illuminare con sagacia critica e con grande sensibilità retorica, sia che si tratti di cogliere la delusione e la stanchezza che percorre la più ampia architettura delle ballate, che, come osserva acutamente lo studioso prendono il nome dalla evidente tendenza alla ripetizione di interi versi, ma anche dalla volontà di raccontare una storia secondo i canoni romantici del ‘genere’, sia che si tratti di cogliere i bagliori repentini delle singole parole, i brandelli filiformi di una misteriosa lacerazione, le fulminee accensioni che, al di fuori di ogni apparente consequenzialità logica, travolgendo la barriera del naturalismo, scoprono la realtà profonda che si cela dietro le apparenze, traducono il suo flusso interiore e mettono in contatto, talvolta senza che si colga la ragione profonda di certe associazioni, le immagini più lontane, o danno vita ad una enumerazione caotica, per usare una terminologia spitzeriana, che altro non è se non il segno più chiaro della propria condizione angosciosa, della propria perdita del dominio classico del mondo, dell’incapacità dell’uomo di farsi padrone della vita.

       Di qui il rilievo che Giuliani attribuisce al gusto dell’iterazione, o la finezza con cui coglie il senso di alcune immagini, o l’insistenza con cui richiama la qualità simbolica della poesia di Annese, tutta volta a rendere lo sgomento e l’angoscia della sua condizione di assoluta estraneità; un’estraneità che è polemicamente e implicitamente contrapposta all’ingenuo ottimismo che può derivare solo dalla serena comunione che stringe il poeta e la società borghese, dall'intesa stabile fra l’io e il mondo.

        Del percorso che dall’estraneità porta alla solitudine le ballate e le liriche sono le 'eroiche' e vitali testimonianze. E Francesco Giuliani le raccoglie e le interpreta con acume e con passione, a partire dal momento emblematico della Ballata d’amore alla frontiera, in cui riscontra, da parte di Annese, in coincidenza con il periodo della ferma militare, il definitivo addio alla giovinezza:

        Anche questo cerchio si salda e ti rinchiude   

                           Giovinezza

Finita alla frontiera

Reliquie di certezze

Che il crine

Del salice devasta

All’infinito.

        La ruggine che dissangua i monti, i platani che si arrendono, gli ulivi crocifissi, il viso smorto oltre i vetri, l’orlo sudicio di una gavetta che ha sempre colore d’albe tristi, l’infermeria sporca di segatura dell’anno vecchio, i piatti nelle mense abbandonate, il cuore chiuso e piagato sono i desolanti emblemi di un amaro disincanto, «ora che tutto agonizza in una stremata congiura di parole» ed è notte anche nel cuore del misterioso interlocutore, del ‘tu’ cui, non solo in questa occasione, si rivolge il poeta come a residuo relitto di un glorioso naufragio nel mare della incomunicabilità.

         È la presa di coscienza della realtà, dell’inconsistenza di ogni speranza, della perdita irreparabile di ogni occasione: «l’occasione si è perduta», confessa il poeta, riprendendo una parola distintiva del suo autore prediletto, di quel Montale che, come nota Giuliani, anima talvolta le falde dell’ispirazione di Giuseppe Annese, che è poeta di buona cultura e che talvolta non manca di sottili ammiccamenti e di suggestive allusioni alla lirica pascoliana e crepuscolare, spesso attraversate dal senso presago dell’appressamento della morte; da quella patina triste e inelut­tabile («il grano sterile dei desideri è stato tutto seminato»), che incombe, per esempio, sulla Ballata della fanciulla invecchiata a Sud, nel cui titolo il riferimento geografico non è semplicemente pleonastico, ma, anzi, allude ad una particolare condizione sociale, a una comune atmo­sfera adolescenziale sullo sfondo di una storia che, come sottolinea Giuliani, qui è quella degli oscuramenti e dei «carri armati tra le querce del viale», ma nella Ballata del domani oscuro è quella, altrettanto op­primente, della logica disumana e perversa del potere e del conseguente, amaro ghigno di chi ha stupidamente puntato tutti gli spiccioli dei propri sogni sul numero di una roulette truccata, quella del partito, quella di un’ideologia che non mantiene le sue promesse.

       Ma il poeta è frequentatore abituale del disinganno se, nella Ballata della nostalgia mortale, anche la memoria si fa spazio irrisarcibile, anche l’amore, nel quale aveva sognato di sciogliere la sua solitudine, diviene oggetto di funebre rimpianto.

        Le immagini grigie ed estenuate di una lenta consunzione, di una oscena pantomima, della ressa dei giorni, di un tempo inospitale costituiscono il corredo anche di Cifrario d’autunno, che raggruma le dolenti liriche degli anni ‘56-‘57 e che si apre con tre brevi blues, in un consa­pevole richiamo, come osserva Giuliani, dei canti malinconici del folclore afro-americano. Il più interessante è senza dubbio il terzo, una sorta di preghiera profana, di invocazione disperata, ma non blasfema, che, collegandosi in chiave intratestuale alla Ballata del domani oscuro («bevendo grappa nelle tampe/ affumicate del Carso, inventarti/ una vita che non si consumi/ sul rogo invisibile delle notti»), ma rinviando idealmente, come acutamente rileva Giuliani, anche all’autoritratto della copertina di Macerazioni divertenti, su cui compare un uomo angosciato con, ai lati, una bottiglia non più piena ed un bicchiere, invoca uno scampo, reclama il conforto di una pioggia ristoratrice di whisky.

        In effetti, a volte, inaspettata e fugace, un’incrinatura rompe, improvvisa, la cerchia dura delle cose; una speranza, un brivido di luce, una combustione dell’anima, un fremito sanguigno sconvolge per un attimo quell’universo desolato, illumina quella virile e insensata solitudine.

        Ecco allora il lume pacificante della luna d'agosto, che, in Notte di guardia, addolcisce le rotaie e veglia un mondo tarlato di tenerezza; ecco allora il tiepido chiarore della donna amata, ecco l’ulivo nella pianura di neve, ecco l’ultimo desiderio che galleggia, ecco la speranza dello straniero, con il sogno di ritrovare la terra «dove le cose !mimo un senso» e «ogni uomo va con se stesso come un amico antico».

        Ma, alla fine, permane la certezza che la bufera non ci rinnova, che il nostro destino è quello di invidiare i fiumi vegliati di notte da un trepidare di donna e di lanterne, che verrà, inesorabile, la morte a scrollarci di dosso un po’ di tristezza, che gli amici sono frantumi di specchi, che il legame del mondo è una promessa di marinaio, che «un giorno non ci alzeremo col sole / per essere il verde sogno / dell’erba nella pianura./ Per sempre dormiremo nel Sud».

        Ma nel Sud, forse, non dormiremo, se sapremo ascoltare le voci di chi, come Giuseppe Annese, con la vibrante intensità e la intrigante suggestione della sua musa insidiata e insidiosa, continua a coltivare tenacemente i suoi sogni e, per dirla alla maniera desanctisiana, mentre canta la vanità di ogni illusione te ne accende in petto un desiderio inesausto, mentre proclama un destino di inesorabile solitudine ti spinge ad un abbraccio di umana solidarietà.

   

        (Il testo riproduce la relazione del prof. Domenico Cofano, ordinario di Letteratura Italiana presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Foggia, La stessa è apparsa sulla rivista "Carte di Puglia", Foggia, n. 14, dicembre 2005, pp. 70-76).

       

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