In un libro a cura di Francesco Giuliani

Con Michele Vocino verso mari lontani con la Puglia nel cuore

 

 

Non mi sono mai molto interessato delle recensioni, favorevoli o contrarie, e preferisco ascoltare i giudizi e le critiche di qualche mio lettore che avesse effettivamente letto tutto il libro e me ne parlasse con sincerità”.

In queste parole, tratte dal “testamento spirituale” di Michele Vocino, Il canto del cigno (pubblicato postumo,  nel 1966, nei “Quaderni de «Il Gargano»”, con Premessa di Giuseppe d’Addetta e Profilo dello stesso Vocino a cura di Michele Capuano), si possono già cogliere l’uomo e la sua profonda autenticità di vita, che Francesco Giuliani ora ci restituisce a tutto tondo nell’ampio e articolato saggio premesso al volume del Vocino Nostalgia di mari lontani – da Roma alle Americhe (con la Puglia nel cuore), pubblicato dalle Edizioni del Rosone “Franco Marasca” di Foggia nella meritoria collana Testimonianze, diretta dal compianto Benito Mundi, Novembre 2010, € 14,00. La collana è giunta al 13° volume. Tredici volumi, molti dei quali dovuti proprio all’italianista Francesco Giuliani, che con la sua competenza e la sua sensibilità ha riportato alla luce opere di grande spessore, contribuendo a ricomporre i tasselli di una identità culturale che in esse affonda le sue radici. Basti ripercorrere i titoli che Francesco Giuliani ha pubblicato in questa collana, pur non fermandosi qui la sua attività editoriale e i suoi interessi di studioso, per stabilire subito la portata del suo lavoro. Viaggi letterari nella pianura; Occasioni letterarie pugliesi; Il Gargano di Antonio Beltramelli; La povera vita di Alfredo Petrucci; Alfredo Petrucci. Le lettere, il Gargano e lo scrittore; Viaggi novecenteschi in terra di Puglia. Nicola Sereno di Lapigia, Kazimiera Alberti, Cesare Brandi, fino a giungere al più recente Nostalgia di mari lontani di Michele Vocino, che con Alfredo Petrucci rientra nel novero dei grandi Garganici, fautori di quella “Rinascita Garganica” che ha raccolto gli spiriti magni, che hanno costituito poi un punto di riferimento per tante altre generazioni di garganici, fino ai nostri giorni, che con essi si sono dovuti sempre confrontare, come uomini di cultura, ma anche come “campioni” di profonda umanità e coerenza.

Quello di Francesco Giuliani non è un semplice recupero, ma una vera e propria operazione culturale. Ogni volume curato da Giuliani è preceduto da analisi attente che ricostruiscono, con una dovizie di particolari e di informazioni, il quadro storico-culturale di riferimento dell’opera. Un’analisi che spazia da notizie bio-bibliografiche, ad osservazioni di carattere linguistico-espressivo, fino a rendere familiare l’autore e a coglierne il messaggio.

E’ quanto accade anche nel volume di Michele Vocino di cui Giuliani ripercorre le tappe fin dalla sua nascita, avvenuta il 27 settembre 1881 a Peschici, da Giacomo, avvocato di San Nicandro Garganico, morto quando Vocino era ancora in tenera età, e da Blandina Libetta, appartenente a una gloriosa famiglia garganica, che proprio con lei si estinse. Il soggiorno sul Gargano formò il carattere di Vocino, legandolo indissolubilmente alla sua Terra, tanto che Giuliani continua a chiamarlo “il Peschiciano”, nonostante dalla sua Peschici Vocino si sia dovuto ben presto allontanare, recandosi dapprima a Lucera per compiere gli studi liceali, quindi a Napoli dove ha conseguito la laurea in giurisprudenza, infine a Roma ai vertici dell’Amministrazione civile della Regia Marina, fino a raggiungere il grado di Direttore generale. Fu, poi, nominato Consigliere di Stato e nel 1948 venne eletto alla Camera dei Deputati. La sua esperienza politica, però, si concluse nel 1953. Un’esperienza portata avanti con scarso entusiasmo e, non aduso al compromesso,  all’insegna  delle proprie “convinzioni di coscienza”. A Roma si spense il 17 maggio 1965.

Il saggio introduttivo di Francesco Giuliani ripercorre, poi, le opere del Vocino, soffermandosi sulle costanti e sulle passioni presenti in esse, per calarsi nell’analisi del volume ora riportato alla luce e riconsegnato alle giovani generazioni, con osservazioni sulla struttura e sulle caratteristiche, aiutandoci a contestualizzare quanto il Vocino riporta nelle sue pagine, individuandone anche le tecniche stilistiche, accrescendo ancor più la curiosità per questo libro, per avvicinarci al quale, il prezioso lavoro di Giuliani costituisce la giusta chiave di lettura.

Il libro di Vocino, infatti, non è un semplice taccuino di viaggio, ma segue il solco profondo dei sentimenti. Già il titolo ci fornisce il filo rosso con il riferimento alla “nostalgia”, come “elemento  costitutivo del carattere [dell’Autore], la necessaria conseguenza del suo essere uno sradicato, un uomo incapace di adeguarsi fino in fondo ad un’altra realtà”. Se il titolo esprime, da una parte, il desiderio dell’Autore “di ritornare nei luoghi già conosciuti in America, rimasti impressi in profondità nella memoria e perciò fissati sulla pagina”, quando è nelle Americhe non lo abbandona la nostalgia della sua terra lontana, come l’inciso del titolo, “(con la Puglia nel cuore)”, lascia intendere. 

La nostalgia lo assale fin dal primo capitolo, Oceano, quando, in un mondo sconfinato e in un’atmosfera idilliaca che la luna riesce a creare avvolgendo con il suo chiarore la nave, la recita della Preghiera del marinaio all’ammaina bandiera giunge, con le sue solenne parole dettate da Antonio Fogazzaro,  all’orecchio dell’Autore e finisce per stringergli il cuore.

La nostalgia lo assale a New York, dove “ogni grattacielo alla chiusura degli uffici o dei laboratori, manda nella via migliaia di uomini e donne”, sicché di fronte a questa folla montante, che congestiona il “movimento cittadino”, lo assale il senso di solitudine e con esso “l’accorata nostalgia della piazza del luogo natio, della vita della cittadina dei nostri primi studi, dove tanta poca gente s’incontrava, e tutti ti conoscevano, e ognuno ti salutava”. Una nostalgia che viene condivisa con gli italiani incontrati nella metropoli statunitense, come Vocino narra nel capitolo “Santa Lucia luntana”. Una nostalgia che spinge a ricreare in qualche stradina di Bronx le atmosfere vesuviane con luminarie e banda musicale (Puglia Band), che strugge gli italiani che vi si sono trasferiti e che continuano anche lì ad offrire ai passanti prodotti che ci riportano ancora in Italia, dai cannolicchi a libri come la Divina Commedia, Pinocchio, I Promessi Sposi, i romanzi di Pitigrilli. Una struggente nostalgia che immalinconisce e a cui fa da “sfondo naturale e perfettamente intonato” la “mattinata grigia e piovosa” in cui l’Autore si imbarca per lasciare la metropoli statunitense verso una nuova destinazione.

La nostalgia domina anche il capitolo I paesi del tango,  in cui frequenti sono i riferimenti alla sua terra d’origine: a Montevideo un volo di procellarie gli sembra “una visione diomedea”; a Buenos Aires ha la sensazione di essere a casa a sentir parlare “quello spagnolo cantato che mi pareva un nostro dialetto” che lascia trasparire il riferimento al dialetto della sua cittadina d’origine, Peschici.

L’aspetto nostalgico ritorna ancora attraverso il riferimento alla sua terra anche nel capitolo Sotto le Ande, sia pure attraverso un raffronto: «L’aspetto di queste campagne non è molto dissimile da quello delle nostre: sembra quasi che un pezzo d’Italia si sia cacciato per incanto in fondo all’America». O nel capitolo Tristezze, dove la descrizione di un lebbrosario ancora una volta lo riporta nostalgicamente alla sua terra, sia pure in un’atmosfera che il titolo stesso del capitolo eloquentemente definisce.

Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1937, risente, come dice Francesco Giuliani nel suo saggio introduttivo, dell’attenzione del momento per il “Nuovo Mondo”, da Cesare Pavese a Mario Soldati, così come risente del clima rondista che ben si sposa con gli influssi dannunziani nella operazione letteraria che è alla base dell’opera  di Vocino. Ne nasce un andamento “del libro, mai scontato e sempre coinvolgente, ricco di attente descrizioni e di vividi particolari, ma anche rapido nei cambi di scena e di situazione. Vocino punta ad una pagina che deve farsi ammirare e assaporare, ma senza stancare ed annoiare, in un equilibrio che va riconosciuto come un pregio non secondario della sua penna”.

La dedica del libro agli ufficiali di rotta dei piroscafi Giulio Cesare, Roma, Virgilio, Saturnia “in ricordo delle notti vegliate sulla plancia in oceano” ci consente, poi, di stabilire che quanto descritto nel libro è frutto di più viaggi che Vocino ha compiuto in momenti diversi verso il “Nuovo Mondo”, raggruppando le emozioni che da essi scaturiscono, secondo due direttrici. Una lo conduce dapprima in America Centrale e quindi in Venezuela, Colombia, Panama fino a giungere, poi, a New York. L’altra si sviluppa tutta nell’America Meridionale tra Brasile, Uruguay, Argentina, Cile e Perù.

Nell’ultimo capitolo, Sperdute nell’oceano, dedicato alle Azzorre, incontrate sulla via del ritorno, il sentimento, che rappresenta una costante di questo libro e che contribuisce a fissare nella mente del narratore tutto quello che verrà fissato sulla pagina, si scioglie in lirismo e le impressioni conclusive si caricano di poesia, chiudendo il cerchio con il riferimento all’oceano, “il più grande amico”, così come aveva fatto all’inizio della narrazione.

“Un momento di intensa gioia l’ho… vissuto salpando la prima volta per l’Oceano” dirà ancora Michele Vocino molti anni dopo nel suo scritto autobiografico  Il canto del cigno, facendo riferimento a queste esperienze.

Da dove veniva in Michele Vocino questo sentimento così profondo nei confronti del mare? Potrà essere spiegato solo attraverso la sua carriera nell’amministrazione civile della Marina?

A tal proposito Giuliani ricorda una significativa pagina autobiografica. “Ho appreso l’amore del mare, che poi è stata la passione dominante di tutta la mia vita, restando lungamente a mirare, dalle terrazze della mia casa materna a Peschici, nelle notti di luna, quella divina solitudine azzurra, ad ascoltare col piccolo cuore in tumulto tutte le sue voci, il lento sciacquio della bonaccia e l’urlo della tempesta, o ad estasiarmi dei violenti cangiamenti di colorazioni nella gloria del sole, o nei riflessi perlacei di nuvole leggiere, o nei barbagli di tramonti infuocati, o sotto la pioggia lentamente cavalcando lungo la spiaggia lunata presso gli orti, sostando sulle impalcature del trabocco, sporgendomi dagli spalti sventrati delle torri di Montepucci e di Maletta”.

Va anche ricordato che la famiglia materna si era particolarmente distinta in imprese sul mare. Il nonno materno di Vocino, Giuseppe Libetta, al comando della nave a vapore Ferdinando I varcò per primo il Mediterraneo nel 1818.  Lo zio di Michele Vocino aveva partecipato alla sfortunata battaglia di Lissa, in cui egli aveva avuto un ruolo importante, come aiutante di bandiera dell’ammiraglio Vacca. Amaro ricordo di un anniversario che coincideva con la festa in onore del Santo Patrono di Peschici, Sant’Elia, il 20 luglio. Vocino stesso ci tramanda memoria di tutto questo in “Manaccore”, del 1964,  in cui non manca di richiamare nostalgicamente i valori di un tempo che stavano ormai lasciando il passo ad una società in cui non ritrovava più  quella pace agreste a Peschici”, né risparmiò critiche nei confronti della “bassa e menzognera denigrazione del nostro Gargano” da parte del romanzo di Roger Vailland, La legge, premio Gongourt nel 1957, da cui Jules Dassin aveva tratto l’omonimo film. Ma la conclusione, di fronte a un Gargano che sta incominciando a risentire dei contraccolpi di un turismo di massa, è improntata alla speranza nell’amico mare: “noi ci auguriamo che quella serenità forse scomparsa dalle vecchie case, dalle vecchie vie del borgo, ora si possa ritrovare rinnovellata non lontano di là, sulla marina”. Una speranza che evoca ancora quelle suggestive immagini con cui si apre e si chiude “Nostalgie di mari lontani” e suggella il profondo sentimento che attraversa tutto il libro.

Pietro Saggese

apparso, in una versione ridotta, su "Il Rosone", Foggia, lug.-dic. 2011, p. 9

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