III- I LIMPIDI E VIVIDI VERSI DE L’OSTESSA DI GABY

 

L’ostessa di Gaby occupa il secondo posto negli Idillii alpini della “Nuova Antologia” e si trova immediatamente dopo Mezzogiorno alpino in Rime e ritmi. Si tratta del momento più radioso, più limpido, tra le opere oggetto del nostro studio: uno squarcio di dorata fantasia che raggiunge dei notevoli risultati poetici, esaltati dalla sua brevità, solo otto versi, esattamente come Mezzogiorno alpino (senza tener conto, ovviamente, della differenza tra versi tradizionali e barbari), che gode comunque di una maggiore notorietà. Ma l’idillio dell’ostessa, da un punto di vista artistico, si avvicina di molto a quello dell’acqua che fluisce.

La poesia pone qualche problema di data, che trova riflesso nelle non univoche informazioni contenute nei commenti critici. La nota dell’Edizione nazionale informa che “La data di Gaby (Issime) 25 agosto 1895, leggesi ai piedi della poesia nella prima edizione curata dal Carducci (Bologna, Zanichelli, 1899) e nelle altre che seguirono; ma la prima data deve correggersi in quella di 27 agosto 1895 che figura di mano del Carducci nelle quattro stesure autografe e anche sulla copertina. Nell’ultima stesura tuttavia il Carducci aggiunge: ‘Rifatta I agosto 1898’”[10]

Anche il Valgimigli, tra le altre considerazioni, riporta queste notizie, in particolare sulla datazione del 27 agosto degli autografi[11], e di lì passano ad altri interpreti della barbara (non però al Saccenti[12], che si è evidentemente anche ricordato delle indicazioni del catalogo del Sorbelli[13]). 

In realtà, nelle edizioni del 1899 e del 1901 la poesia riporta in calce la data del 27, mentre i manoscritti di Giosuè sono tutti datati 28 agosto 1895[14]. Il primo abbozzo in prosa, in particolare, porta quest’ultima data, specificando che si tratta della “mattina”.

L’ispirazione gli viene dunque nella parte iniziale della giornata, come nel caso, tra gli altri, del bozzetto dedicato al mezzodì, e dunque, contrariamente a quanto riporta il pur meticoloso biografo Biagini, non si tratta dello stesso giorno[15], bensì ci sono ventiquattr’ore di distanza, il che, misteri dell’ispirazione a parte, ci sembra anche più plausibile.

Particolare curioso, nell’abbozzo in prosa il titolo è L’ostessa di Gavi, che si ritrova anche in calce al secondo manoscritto, “28 agosto 1895, Gavi”. Sui testi ottocenteschi questo nome non viene riportato e neanche al municipio della località valdostana ne sanno qualcosa. In Piemonte, in provincia di Alessandria, c’è un comune con questo nome; che Carducci abbia semplicemente fatto confusione, tratto magari in inganno da una presunta omonimia, correggendo il tutto in un secondo momento? E’ probabile.

Il terzo autografo riporta la giusta grafia, e così il quarto, che aggiunge tra parentesi la data del rifacimento, ossia il primo agosto 1898, che si legge anche sulla copertina dell’inserto, accanto all’altro estremo cronologico, rappresentato dal 28 agosto di tre anni prima.      

Ma tra le carte della biblioteca carducciana, su un foglio che sull’altro lato contiene i versi dell’idillio In riva al Lys, si legge il testo definitivo de L’ostessa di Gaby, passato sulla “Nuova Antologia”, con in calce un’indicazione più completa, “Gaby (Issime) 28 agosto 1895”[16].

Da quanto detto, si deduce facilmente che la poesia è nata, almeno come abbozzo in prosa, in quel giorno, pensando alla piccola località valdostana, non che il poeta si trovasse lì. Con tutta probabilità, infatti, Giosuè è a Courmayeur, dove stava già il 27, come si legge nel suo epistolario. Difficile è invece capire se le prime due stesure in versi siano immediatamente successive a quella in prosa o se intercorra un lasso di tempo più o meno ampio.

Le parole del quinto autografo sono le stesse riportate al termine della poesia sul fascicolo della “Nuova Antologia” che ospita gli Idillii alpini, con la sola differenza che qui la data è il 27 agosto, che viene riportata anche sul volumetto zanichelliano del 1899.   

Stando così le cose, lo spostamento di giorno potrebbe essere legato ad un semplice errore del poeta o degli stampatori, rimasto poi al suo posto. In questo modo, tutto si spiegherebbe senza ulteriori complicazioni; meno probabile ci sembra una scelta intenzionale del poeta. 

     Ma come nasce L’ostessa di Gaby? Il Vate nell’agosto del 1895 era in villeggiatura a Courmayeur, ma coglie l’occasione per un’escursione nella valle di Challant, per poi arrivare a Gressoney, nella vicina valle del Lys, la più orientale della regione valdostana, solcata dal corso d’acqua che legherà il suo nome all’idillio dedicato a Severino Ferrari.

Nella lettera a Guido Biagi, il 23 agosto, Giosuè scrive: “Dimani parto per Gressoney, dove mi tratterrò due o tre giorni; e poi tornerò qui”[17]. La sua partenza viene comunicata anche a Cesare Zanichelli, all’indomani, e sempre a lui il poeta fa un resoconto parziale della gita, il 27 agosto, una volta ritornato a Courmayeur. Giunto a Brusson, nella valle di Challant, a dorso di mulo sale fino al colle di Ranzola, ad oltre duemila metri, per poi scendere a Gressoney S. Jean, facendo un’escursione di grande richiamo turistico, segnalata anche nelle guide del Touring Club.

Di qui le belle parole che scrive: “Gressoney è un incanto, con il Lys che dal ghiacciaio del Monte Rosa limpido e tranquillo discende in letto piano per un bellissimo piano verde smeraldo, etc. etc. (vacche pezzate di nero- pastorelle con la sottana rossa- tintinnio dei campanelli delle vacche etc.)”[18].  

     In questo passo possiamo notare, a parte il consueto gusto cromatico, l’entusiasmo per la bellezza della natura, quasi nuovamente scoperta in questo viaggio, con un apprezzamento che va esteso un po’ a tutti i centri solcati dal corso d’acqua; ma nella lettera non c’è alcuna menzione di Gaby.        

     Il piccolo comune, posto a 1.031 metri d’altezza, francofono, è oggi autonomo, ma allora, e tale resterà per parecchi anni, era una frazione di Issime, un paese posto più giù, nella valle, mentre più in alto c’è Gressoney S. Jean, dove appunto arriva il poeta. Anche nelle altre lettere immediatamente successive, Carducci ha parole solo per Gressoney, “ch’è un idillio”[19], davvero un paese da sogno, straordinariamente bello, eppure la poesia che nascerà pochi giorni dopo avrà come protagonista Gaby, dove Carducci evidentemente è passato, forse nel viaggio di ritorno.     

      La testimonianza contenuta nell’Albo carducciano, raccolta anche dal Saletti e dal Ferrari, giunge a distanza di pochi anni e cita persone del luogo, collegando l’ostessa alla proprietaria dell’Antico Albergo Colli Vecchia e Mologna, di cui si vede una fotografia, poi restaurato e diventato Hotel Regina. A lei, si precisa, il poeta diresse “una delle sue più gentili poesie”[20]

Dunque Carducci ha toccato anche Gaby. Va notato, comunque, che egli già conosceva il paesino, dove aveva pernottato nel 1889, l’anno in cui nasce Courmayeur, come possiamo leggere sui suoi appunti, pubblicati nell’ultimo volume dell’Edizione nazionale. Il 14 agosto Carducci scrive: “A Pont S. M. trovato Piero Giacosa. Tre ore di cammino a piedi da Pont S. M. per il Perloz fin quasi a Fontana Mora. Da Fontana Mora su mulo fino a Gaby, ore 9 circa. Cena e dormito in Gaby”[21]. Il giorno dopo, a ferragosto, aggiunge, dopo una levataccia alle 4 di mattina: “Su muli da Gaby a Saint Jean de Gressoney. Bellezza e singolarità idillica della posizione”[22].

     La frequentazione e l’esaltazione della zona, insomma, risalgono indietro nel tempo e riemergono con forza cogliendo l’occasione propizia dalla passeggiata dell’agosto del 1895, un periodo fertile per la composizione degli idilli alpini, in particolare i giorni 27 e 28, come sappiamo, legati a Mezzogiorno alpino, a L’ostessa di Gaby e a Esequie della guida E. R. 

     La traccia in prosa dell’Ostessa si apre già con lo spunto paesaggistico, dipingendo un limpido e fresco mattino, in cui “il sole su per gli abeti tremola e sorride” e si compie il viaggio di avvicinamento (“Bella è la discesa e rapida”) verso “gli sparsi bianchi chalet”, che attendono il poeta dandogli riparo. Compare anche “La bella ostessa”, che saluta e “mesce il bianco vino”.

Si può notare qualche ricordo di Courmayeur. L’idillio alpino assume, ovviamente, una fisionomia più definita nel secondo manoscritto, versificato, nel quale troviamo i quattro distici elegiaci che connotano il carattere di poesia barbara.

     Dall’esame delle varie redazioni, si capisce subito che il primo verso, legato al nucleo iniziale dell’ispirazione poetica, gli ha procurato vari problemi e ripensamenti; in particolare, Carducci è disorientato dalle congiunzioni e dagli aggettivi e non riesce a sistemare con certezza la forma del verbo essere.

In un primo momento, dunque, dopo la cassatura di “fosca”, l’attacco suona così: “E verde fosca è l’alpe e limpido e fresco il mattino”; nel terzo foglio c’è una virgola dopo “l’alpe”, a spezzare l’esametro; nel quarto, invece, il verso diventa “E verde e fosca l’alpe e limpido e fresco è il mattino”, e così nel quinto, che però tradisce, con una correzione e un’aggiunta, un nuovo ripensamento, che lascia comunque spazio alla vecchia lezione, che è poi quella definitiva (la virgola dopo “l’alpe” presente nell’edizione nazionale va pertanto eliminata, alla luce anche delle edizioni del 1899 di Rime e ritmi e delle Poesie del 1901). Nel testo inviato a Severino il 5 settembre 1898 l’accento è invece all’inizio (“E’ verde…”)[23].

     La decisione finale di Giosuè, in ogni caso, è quella più efficace da un punto di vista artistico, in un verso che si regge su di una disposizione parallela dei termini, che coincide anche con la struttura metrica dell’esametro, con due aggettivi e un nome per emistichio. La copula, così sistemata, sostiene il ritmo del verso nella parte finale, esaurito lo slancio dell’attacco iniziale.

     Coerente con l’armonia del verso è anche il superamento dell’oscillazione tra “verde fosca” e “verde e fosca”, a favore della seconda forma, che è più potente, descrivendo non solo una montagna verde scura, ma una in cui accanto alle parti più cupe, dense di foglie e rami e non ancora illuminate dal sole, si affiancano altre più chiare, occupate da pascoli. E’ una visione d’insieme, insomma, che rende però la varietà dello scenario, giocando con maestria sugli effetti chiaroscurali.

     Sugli aggettivi del “mattino”, invece, fresco per l’ora e per l’altitudine, ma splendido inizio di una radiosa giornata alpina, il Carducci non ha dubbi.

Il secondo verso, dopo l’iniziale “e traverso gli abeti tremola il sole e ride”, viene corretto sullo stesso foglio, assumendo la forma originale, ragion per cui non verrà più modificato.

E’ chiara nella mente del poeta anche la forma del secondo distico. Nel pentametro si passa da “Rapida la discesa” a “Precipita la scesa”, per cui l’aferesi è dovuta a motivi metrici.

Niente di particolare si segnala nel terzo distico, con l’arrivo e la presentazione dell’ostessa, che non dà luogo a problemi, mentre le incertezze sono sulla prosecuzione e dall’esame del manoscritto appare chiaro, nel complesso, che Giosuè incontra delle difficoltà nel completare la barbara. Egli tira due freghi su due versi consecutivi, eliminando ogni ulteriore riferimento all’ostessa e al mattino alpino e introducendo le “forre”, come luogo più determinato attraverso il quale si svolge il movimento, finché non riesce a concludere in bellezza il bozzetto, trovando uno sprazzo di felice fantasia.

Nell’epilogo del verso di chiusura, “sogno d’una canzon d’eroi” coesiste con il definitivo “sogno d’una canzon d’armi e d’amori”, che si legge nell’interspazio dell’ultimo distico.

La bellissima conclusione sposta in modo suggestivo il pensiero dalla descrizione della natura alpina e del viaggio ad un mondo magico e irreale, evocato con efficacia attraverso un chiaro ricordo letterario, che però non ha nulla di forzato, ma, al contrario, nasce con naturalezza e si impone con la sua forza artistica.

Ricopiato via via negli altri manoscritti, l’idillio non subirà più grossi cambiamenti, avendo trovato il suo assetto definitivo.

Nelle “armi” e negli “amori” viene riassunto il senso di un’epoca lontana e di una fascinosa letteratura, che intreccia virtù eroiche e innamoramenti, tenzoni belliche e sentimentali, una giostra intorno a cui ruotano a volontà dame e cavalieri sempreverdi nel ricordo.   

Nel secondo e nel terzo manoscritto Carducci scrive “d’armi e d’amori”, nei successivi, però, corregge con “d’arme e d’amori” e quest’oscillazione trova agganci anche nel resto della sua produzione poetica. In Da Desenzano si legge: “mentre su i merli barbari fantasimi/ armi ed amori con il vento parlano” (vv. 15-16), con un chiaro riferimento al mondo medievale. In Alla città di Ferrara, che è del 1895, quando nasce anche l’Ostessa, ci imbattiamo nella “Parisina ardente dal sangue natal di Francesca, / che del vago Tristano legge gli amori e l’armi” (vv. 29-30).

Il nesso è ancora più evidente e ci riporta a quell’ampia produzione medievale, in versi e in prosa, che ripropone le due tematiche fondamentali dei cicli carolingio e bretone, nei loro molteplici, liberi mescolamenti. E tra i tanti nomi Carducci non può non avere, ovviamente, un pensiero particolare per Ariosto, ma il senso dell’espressione è più ampio.

Lo stesso celeberrimo primo verso del Furioso, tra l’altro, viene citato in modo differente dai vari autori. Nella Mascheroniana Monti aveva ricordato “quel grande che cantò l’armi e l’amori” (canto V, vv. 33), ma Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai, così familiare al Carducci, soprattutto nell’anno del centenario, parla con precisione del “cantor vago dell’arme e degli amori” (vv. 108).

Di fatto, Giosuè propende per la seconda, che è la stessa forma ariostesca, più letteraria e preziosa, malgrado i suoi due precedenti appena citati, ma che, come già visto, non ha nulla di stantio e di greve e si affianca tranquillamente all’altrettanto letterario “trasvolan”. Quanto ad “amori”, gli autografi sono concordi, anche se nella lettera a Severino c’è “amore”.

 

 

 

 

 

IV- L’OSTESSA DI GABY: L’ALPE, IL MATTINO, LE FIGURE

 

L’ostessa di Gaby è un’ode barbara scritta in distici elegiaci, come anche, nel gruppo degli idilli alpini, L’elegia del monte Spluga, che però è ben più ampia e complessa; ma noi possiamo ricordare in Rime e ritmi almeno Sabato Santo, Alle Valchirie e In una villa, che di distici ne ha solo tre, uno in meno della poesia in esame, ma altrettanto regolari nella resa in metrica accentuativa dell’esametro e del pentametro, secondo una tecnica ormai consumata.

Il primo è formato da un settenario e un novenario, il secondo da due settenari.

Abbiamo già notato le difficoltà legate alla stesura del primo verso, che è ricco di elementi descrittivi, ma racchiusi in un breve spazio. In esso Carducci condensa lo sfondo naturalistico, il più ampio contesto ambientale, che in Mezzogiorno alpino occupava la prima quartina. Siamo in montagna nelle prime ore di mattina, vuole dirci l’autore, compiendo un tragitto iniziato di buon’ora, quando la natura offre il suo aspetto più vivo e frizzante, permettendo di cogliere impressioni rarefatte e stimolanti, di godere di suggestivi giochi di luce, che restano impressi nella mente.

Anche qui, come nell’idillio dell’acqua che fluisce, nel verso d’attacco ritroviamo il vocabolo “alpe”, con l’iniziale minuscola, stavolta però al singolare.

E’ il dominio del mattino contrapposto a quello del mezzodì, sul quale, però, Carducci indugia di meno, passando ad una descrizione più localmente vicina, e dunque restringendo immediatamente lo spazio, come nell’altro idillio avveniva solo ai versi 5-6.

Gli aggettivi riferiti alla montagna ricorrono spesso nella produzione del Nostro e così quelli del “mattino”, posto in evidente posizione di chiusura, a fine esametro. Per quest’ultimo citiamo almeno il verso “Ancor sovra l’ali del fresco mattino rivola”, in All’Aurora (v. 17), e, soprattutto, il “lucido e freddo mattin” di  Courmayeur (v. 27), che presenta una coppia di aggettivi semanticamente vicina a quella de L’ostessa e che dovette di sicuro risuonare, calata nel nuovo contesto poetico, nella mente del poeta.           

Ma anche dopo il 1895 Carducci si ricorderà del “mattino”, unendolo in modo significativo all’“alpe”, nell’attacco della Lassa della parte seconda dell’incompiuta Canzone di Legnano, che è del novembre del 1900 e che suona così: “Chiaro il mattino e rosseggiante è l’alpe”. Un legame al quale egli non sa rinunciare e che si trasforma in un caratteristico tratto artistico del Vate. 

Quanto al secondo verso, se in Mezzogiorno alpino i “pini” e gli “abeti” sono completamente dominati dai raggi meridiani, ora la coppia arborea si riduce ad unità e l’immagine assume movimento e vivacità. Il sole del mattino sembra giocare, senza la forza soggiogante del primo idillio, con la sua luce dorata e mobile, condizionata dal gioco dei rami e delle foglie, scossi dal vento, oltre che dal movimento del poeta, che immagina di descrivere il quadro nel suo viaggio verso la piccola Gaby.

     E’ un sole che non scalda, data l’ora, che sa di giovinezza e di gioia esistenziale; è una presenza gradevole e mutevole, mentre si avvia a salire sempre più nel cielo, racchiusa in un ambito visivo più circoscritto rispetto a quello dell’esametro d’attacco.

Non è casuale il fatto che “sole” chiuda il verso, come prima “mattino”. Inoltre, se quel “d’oro” appare poeticamente dotato di grande forza, a rendere il gioco della luce fornisce un importante aiuto l’allitterazione fra “traverso” e “tremola”, specie con la consonante vibrante.

Il verbo lo ritroviamo, tra l’altro, nella barbara In una chiesa gotica (“io veggo un fievole baglior che tremola/ per l’umid’aere: freddo crepuscolo/ fascia di tedio l’anima”, vv. 46-48), e in Ruit hora, dove, in un bel momento poetico, il roseo sole del tramonto “aureo scintilla e tremola” (v. 11). Gli esempi sono agli antipodi rispetto a quello de L’ostessa di Gaby, dove invece è mattina.

Un altro precedente significativo ci riporta a Intermezzo, un’opera in cui il nostalgico poeta ricorda i luoghi nativi e si sofferma, particolare per noi interessante, sui monti della Versilia: “Sol ch’io potessi riposare il volo/ Su’ miei paterni monti!/ Al sol che tra le selve snelle mira/ Co ‘l tremolar de’ raggi,/ Nel suol molle di musco che respira/ Desii di fior selvaggi” (vv. 287-92).

Il termine usato nel secondo verso dell’idillio alpino fa di certo parte del repertorio carducciano ed è appena il caso di ricordare che ha avuto molti precedenti nella tradizione italiana.

 Nel terzo verso troviamo un particolare alquanto stereotipato, da locus amoenus, “Cantan gli uccelli a prova”, che offre un flash descrittivo, occupando metà esametro. Carducci utilizza il più moderno “uccelli”, preferendolo al letterario “augelli”, tanto caro a Leopardi e usato anche da Giosuè in altre occasioni; di fronte al successivo “a prova”, comunque, il pensiero vola davvero al Recanatese e al suo idillio La quiete dopo la tempesta (“A prova/ vien fuor la femminetta a còr dell’acqua/ della novella piova”, vv. 13-15), anche se attraverso gli esempi famosi arriviamo almeno fino a Dante e al Petrarca. Un modo di dire senza dubbio letterario ma che, nota Demetrio Ferrari nel suo commento, “dicesi sia vivo tuttora in qualche luogo della Toscana”[24].

Il verbo cantare è generico e in un’altra barbara in distici elegiaci, Fuori alla Certosa di Bologna, lo troviamo ripetuto: “cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento” (v. 32).

Nella poesia di Rime e ritmi decisamente più inconsueto è invece il verbo del secondo emistichio, “stormiscono”, riferito alle “cascatelle”. Curiosamente, in Rimembranze di scuola leggiamo un passo in cui l’io poetante si immagina morto, mentre si ascoltano “fuor gli augelli/ Cantare allegri e gli alberi stormire” (vv. 42-43).

In effetti, il verbo si lega solitamente al fruscio, al rumore di fronde, di foglie, mentre ne L’ostessa di Gaby il nesso è con le “cascatelle”, quelle formate dagli affluenti del Lys, più che dallo stesso torrente, che costituiscono una delle attrazioni della suggestiva zona e vengono segnalate dalle cartine geografiche.

Inoltre, va sottolineato che la sensazione dominante è quella uditiva, rappresentata dal rumore leggero prodotto dalle acque, che richiama quello delle foglie, e in questo modo il terzo verso trova una sua unità. Anche le acque, insomma, sembrano quasi fare a gara tra di loro, come gli uccelli.

Il termine “cascatelle” ritornerà poi nella Elegia del monte Spluga, ma affiancato da un aggettivo, “allegre”, che rafforza l’idea di gioiosa vitalità contenuta nel nome.

Pure in Mezzogiorno alpino c’è un verbo abbastanza particolare, “garrisce”, tratto questa volta non dal mondo vegetale, ma da quello animale.

Una sinfonia di suoni vivi e gradevoli accompagna insomma Carducci, che poi descrive con la solita brevità il ripido discendere della strada, che porta verso Gaby.

Niel è oggi una piccola frazione del paese ricordato nel titolo, posto qualche centinaio di metri più in alto rispetto a questo, da cui dista pochi chilometri. Allora entrambe le località dipendevano da Issime.

La strada presenta una brusca pendenza e tutti i termini ribadiscono questo dato, a partire dall’iniziale “precipita”, che ha un forte effetto e che troviamo in Il liuto e la lira (“…e cerula tra l’argento/ per i tonanti varchi precipita/ la Dora a valle cercando Italia”, vv. 68-70), mentre in Cadore ci imbattiamo in un carrettiere che “per le precipiti/ vie tre cavalli regge ad un carico/ di pino da lungi odorante” (vv. 141-43).

Quanto a “scesa”, è stato già notato il sapore dantesco del nome, presente in due passi dell’Inferno in contesti affini al nostro (“cotal di quel burrato era la scesa”, XII, 10; e “rimbomba là sovra San Benedetto/ de l’Alpe per cadere ad una scesa/ ove dovea per mille esser recetto”, XVI, 100-02). Nel paragrafo precedente abbiamo anche visto com’è maturata la scelta di questa forma, che ha una sillaba in meno di discesa.

Nell’Inferno (XXXI,7) è usato anche “vallone”, ma va detto che il passo carducciano, al di là della felice essenzialità, non ha nulla di terrificante, ma ha solo la funzione di far risaltare, per contrasto, la dolcezza della sosta finale, preparando la scena alla comparsa della fata-ostessa. 

Gaby, che pure è a poco più di mille metri d’altezza, sembra così quasi un placido luogo pianeggiante, in confronto ai dirupi e ai tratti scoscesi percorsi e visti. Le immagini dell’epoca sono suggestive, rendendo plausibile l’entusiasmo dell’io poetante, e il riferimento è in particolare alla foto presentata nell’Albo carducciano, con il Lys spumeggiante e solcato da un ponticello ad arco, con le tipiche case alpine sullo sfondo, con tanto verde e alti monti che si elevano[25].

Nei primi due distici ricorre una struttura con il verbo che precede il soggetto, il che pone in evidenza sia l’azione, sia anche il nome, che quasi sempre occupa la posizione di chiusura.

Con la prima metà dell’idillio si chiude anche il cammino di avvicinamento alla località valdostana, che appare subito bella, baciata dal sole salito ormai nel cielo.

La strada tortuosa finisce davanti alle “bianche case” (v. 5), e per l’occasione la lingua rinuncia agli echi letterari, per l’immediatezza, che rende il piacere dell’arrivo, evidenziata dall’iniziale “Ecco”.

Poi avviene tutto rapidamente, un po’ come, mutatis mutandis, nell’Elegia del monte Spluga, con la facilità con la quale si verificano i fatti più stupefacenti, nelle opere di fantasia, e in questo modo l’idillio compie un ulteriore passo verso il regno del sogno e della magia, rappresentato dall’ultimo distico.

La scena, che potrebbe sembrare prosaica, di un’ostessa che si fa incontro al poeta per ristorarlo con l’amato vino, viene resa con rara felicità artistica, in un’immagine molto luminosa. La donna è “giovine” (v. 5), quindi porta con sé i valori della bellezza e della vitalità, e il suo comportamento viene descritto compendiosamente con tre rapidi verbi, “ride, saluta e mesce lo scintillante vino” (v. 6).

Prima di tutto, dunque, essa appare già con un sorriso sulle labbra, che giunge come una consolazione per l’anima; ha visto da lontano il nuovo arrivato e si è fatta trovare pronta, sulla soglia di una di queste “bianche case” (v. 5), che è poi un’osteria, rivolgendo il benvenuto all’ospite. Quanto alla consolazione del corpo, è rappresentata dall’atto di versare il vino nel bicchiere.

Lo “scintillante”, che nell’attacco di Piemonte designa le famose “vette”, ha un ruolo centrale nell’accrescere la luminosità dell’episodio, quasi che l’atto gentile sia stato benedetto e trasfigurato dalla luce dell’astro, legandosi al “bianche” del verso precedente.

“E’ bello al bel sol de l’alpi/ mescere il nobil tuo vin cantando”, aveva scritto Carducci in A una bottiglia di Valtellina del 1848 (vv. 19-20), e qui ci pensa l’ostessa a compiere quest’azione. Altri precedenti d’autore possiamo trovare in altre barbare, come in Su Monte Mario (“Mescete in vetta al luminoso colle,/ mescete, amici, il biondo vino, e il sole/ vi si rifranga”, vv. 9-11), e nella già ricordata Ruit hora (l’astro vitale “si rifrange roseo/ nel mio bicchiere”, vv. 10-11).

Il distico de L’ostessa di Gaby, così tipicamente carducciano, svolge benissimo la sua funzione, preparando il bel finale, che riverbera a ritroso gli interrogativi del lettore. E’ una donna o una fata gentile, l’ostessa incontrata? E in quel vino c’è una misteriosa pozione che libera da ogni affanno? E il suo regno è un’osteria o un magico castello, che appare così per l’occasione?

     Tutto è possibile, in quest’oasi luminosa, e di certo versando “lo scintillante vino” la donna dà la stura al trionfo dell’immaginazione poetica, agganciata felicemente alle reminiscenze letterarie di Giosuè.

     Dal regno del mattino a quello della fantasia: questo, in parole povere, il tragitto compiuto nell’idillio.

Ora la scena si riempie di “figure” (v. 7), e il poeta, che in una barbara come Fantasia era salpato per la Grecia classica, abbandonandosi al suono delle parole di una donna, sceglie adesso un’altra direzione, ritrovando la scena affollata di personaggi dell’epoca medievale, cavalieri, magari su volanti ippogrifi, dame, eroi senza paura, donzelle innamorate e languenti, fate gentili come l’ostessa, tutto un repertorio, dunque, che nasce dall’immaginazione accesa dalla lettura di un’opera che tratta di “arme e d’amori”, forse l’Orlando furioso, come ipotizza il Rettori[26], forse altri libri dagli stessi caratteri. 

Le “figure” sono aeree, e il verbo, “trasvolan”, vuole appunto dire che passano rapide e leggere in volo, compaiono e si dileguano, con la forza propria dei parti dell’immaginazione, in questo suggestivo scenario alpino, ”Per le forre de l’alpe” (v. 7), attraverso gli scoscendimenti, le gole che s’aprono tra i monti.           

Il termine “forre” non si ritrova nelle altre raccolte definitive carducciane, mentre “alpe” è una parola evidentemente fondamentale, che il poeta ripete, dopo averla introdotta nel primo verso, nella stessa posizione di chiusura di settenario e sempre con la minuscola (ricordiamo, en passant, la sua presenza anche nell’attacco di Mezzogiorno alpino, idillio che alla fine dell’analisi ci sembra ancor più vicino di quanto ci sembrava all’inizio).

Il prezioso verbo viene usato altre volte da Giosuè, come nel finale della barbara Alla Regina d’Italia: “Salve, o tu buona, sin che i fantasimi/ di Raffaello ne’ puri vesperi/ trasvolin d’Italia…”(vv. 45-47). Un precedente illustre, visto che abbiamo registrato altri dantismi, è anche nella Commedia (“…le menti sante/ create a trasvolar per quella altezza”, Par., XXXII, 90-91).

     La fantasia del Carducci, come spesso avviene, lavora su tali reminiscenze letterarie.

E’ un distico, nel complesso, di una felice letterarietà, che non stona affatto con il resto dell’idillio, anzi, si armonizza alla perfezione con esso, rappresentando la degna conclusione di un piccolo gioiello poetico.

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[11] M. VALGIMIGLI, in G. CARDUCCI, Rime e ritmi, cit., p. 145.

[12] M. SACCENTI, in op. cit., vol. I, p. 978. 

[13] A. SORBELLI, Catalogo dei manoscritti…, cit., vol. I, p. 66.

[14] Cart. III, 89.

[15] M. BIAGINI, cit., p. 714. Il passo è quello riportato alla nota 28. Il biografo aggiunge nella stessa pagina che L’ostessa di Gaby “coglie e fissa dal vero, in quattro limpidi distici, l’impressione di fresco, di pace, di luce, all’apparire del paesino di Gaby, dopo una discesa ‘bellissima, cioè, orribile’ attraverso le forre dell’Alpe e ferma l’incanto della fanciulla che, come in vecchie stampe dell’Ottocento, saluta dalla soglia, e sorride, i viaggiatori, poi mesce vino scintillante nel bicchiere”.

[16] Cart. III, 87. Vedi Sorbelli, cit., vol. I, p. 66.

[17] LEN, vol. XXII, p. 258.

[18] LEN, vol. XIX, p. 136.

[19] Ivi p. 132.

[20] Albo carducciano, a cura di G. Fumagalli e F. Salveraglio, Zanichelli, Bologna, 1909, p. 168.

[21] Anno 1889. Note di luglio e agosto in Opere, cit., vol. XXX, p. 168.

[22] Ibidem.

[23] LEN, vol. XX, p. 167.

[24] G. CARDUCCI, Rime e ritmi, con commento e note di D. Ferrari, Zanichelli, Bologna, 1928, p. 182.

[25] Albo carducciano, cit., p. 168.

[26] G. CARDUCCI, Poesie, a cura di G. B. Squarotti, note di M. Rettori, Garzanti, Milano, 19822, p. 518 (“…non è improbabile che il C. pensasse qui proprio al Furioso”).

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