DIALETTO A SCUOLA? NO, GRAZIE!...       

 

        Dei dialetti da alcuni anni a questa parte si parla con sempre maggiore insistenza e non sono mancati quelli che hanno chiesto di introdurre i vari vernacoli nelle scuole. Ma è utile e possibile insegnare il dialetto? E’ una domanda decisamente interessante, alla quale risponde, affrontando anche altre cruciali problematiche, Umberto Eco, in un suo intervento racchiuso nel volume “La lingua italiana fattore portante dell’identità italiana (a cura della Presidenza della Repubblica Italiana e della Società Dante Alighieri, Roma, 2011, pp. 79).

        Il libro, corredato da un dvd, riproduce le relazioni svolte da vari relatori in un incontro tenutosi al Quirinale, alla presenza del presidente Napolitano. Un’occasione, ovviamente legata ai festeggiamenti sul centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, per fare il punto sulla nostra straordinaria lingua, troppo spesso trascurata e sottovalutata. Di qui la presenza di interventi dal carattere divulgativo, brevi, chiari e incisivi, come dovrebbe sempre essere, affidati a nomi come Tullio De Mauro, Vittorio Sermonti e Luca Serianni.       

Ebbene, Eco, nel suo discorso, “L’italiano del futuro”, ha ricordato i tanti paradossi di una nazione, come l’Italia, unita nel 1861, malgrado solo una piccola minoranza conoscesse la lingua di Dante e Petrarca. La nostra lingua, si sa, era utilizzata soprattutto per scrivere, mentre nel parlato dominavano i dialetti. Nella prima guerra mondiale due plotoni italiani, uno formato da siciliani, l’altro da lombardi, stavano per spararsi addosso, dal momento che ogni gruppo riteneva che l’altro fosse formato da soldati tedeschi. Un equivoco molto significativo. Da allora l’italiano ne ha fatta di strada, mettendo nell’angolino i dialetti. Ma la crisi dello stato centralista ha ridato fiato ai particolarismi, che vorrebbero ridare centralità al dialetto, introducendolo persino nelle scuole.

         Ma su questo punto Eco è giustamente perentorio. Il dialetto non sostituirà mai l’italiano e se l’Italia per assurdo si dividesse, come vorrebbe Bossi, si continuerebbe a parlare l’italiano anche nei piccoli stati regionali che ne deriverebbero.  

         I vari dialetti, infatti, appartengono al passato, e pertanto il loro lessico è limitato. “Un dialetto si trova, - spiega Eco – rispetto ai grandi temi della scienza e della cultura, nella situazione di un universo chiuso, che non è mai stato stimolato a parlare di Hegel o del principio di indeterminazione. Per questo al dialetto si ritorna, e con amore, per ritrovare il sapore e il tepore di una infanzia perduta e le nostre radici, non per elaborare su quella base una carta dei diritti dell’uomo o un trattato di informatica”.

         La riscossa dei dialetti aumenterebbe solo il nostro isolamento, in un mondo nel quale i giovani devono, al contrario, aprire al massimo i propri orizzonti.

         Sono concetti, come si vede, che non fanno una grinza. La letteratura nazionale ha espresso grandi autori in dialetto, come Gioacchino Belli e Carlo Porta, che è bene conoscere, ma senza stravolgere la realtà e alterare il quadro di riferimento generale.

         Il futuro della nostra lingua, però, non manca di altre incognite, forse più pericolose, causate dalla diffusione di internet e da forme di comunicazione (sms, facebook…) in cui la lingua viene sempre più maltrattata e stravolta da abbreviazioni e simboli matematici. Ce la farà la lingua di Dante a vincere anche questa sfida? Speriamo di sì, ma di sicuro non si può restare sconcertati dall’esempio citato da Eco, ossia quello di uno studente universitario che pronuncia “Biperio” il nome di Bixio, scambiando la “x” per l’abbreviazione di “per”. La ricchezza del vocabolario italiano, ricco di decine e decine di migliaia di termini, è messa a dura prova da fenomeni nuovi e dalla rapida diffusione, ma l’auspicio di tutti è che alla fine prevalga la ragione.

         Piuttosto, c’è bisogno di conoscere sempre più la lunga storia di una lingua, come la nostra, che è ancora comprensibile, a distanza di secoli. Il “Decamerone” di Boccaccio viene gustato dagli studenti delle nostre scuole superiori, ma in Inghilterra non avviene lo stesso per i “Racconti di Canterbury” di Chaucer, per i quali si ricorre spesso a versioni ammodernate. E si potrebbero fare altri esempi anche con la letteratura francese.

         Quella parlata fiorentina, usata dalle tre corone, Dante, Petrarca e Boccaccio, prescelta nel Cinquecento come lingua dello scrivere per tutti, dalle Alpi alla Sicilia, ma affermatasi solo con molta difficoltà presso il popolo, rappresenta un elemento d’unità troppo prezioso per gli italiani. Di qui la necessità di valorizzare questa lingua unica, anche e soprattutto attraverso investimenti economici, al contrario di quanto si verifica ormai da molto tempo per la miopia dei politici.

         La crisi economica, in fondo, si vinca anche sulla cultura, portando in primo piano ciò che ci unisce, non ciò che ci divide.

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