LE POESIE DI PASQUALE SOCCIO

 

 

         La figura di Pasquale Soccio, a vent’anni dalla scomparsa, ha ricevuto di recente un arricchimento e una conferma attraverso la pubblicazione del corpus delle sue liriche. Il riferimento è al volume Poesie 1925-1998, pubblicato dalle Edizioni del Rosone, a cura di Michele Galante, con un saggio introduttivo di Ferdinando Pappalardo.

         L’arricchimento, a dire il vero, presenta anche dei tratti sorprendenti. Si sapeva, infatti, e lo aveva anticipato Matteo Coco, dell’esistenza di poesie di Soccio, anche al di là dei versi inclusi, ad esempio, in Materna terra, dov’è inserita la lirica Commiato. Quello che non si immaginava, però, è che le composizioni fossero ben più numerose, circa duecento, come viene ricordato nell’opera appena pubblicata. Soccio, insomma, ha amato la poesia, classica e novecentesca, per tutta la vita, e per una parte ragguardevole della sua esistenza si è anche cimentato nella composizione.

         La silloge si avvale di due pregevoli introduzioni. Il saggio Significarsi con le parole. Pasquale Soccio e la poesia di Pappalardo affronta con scrupolo tutte le problematiche relative a queste liriche, evidenziando le ascendenze letterarie, per poi rimarcare l’apertura rappresentata dall’esperienza romana, che ha in effetti funto da indispensabile fase di maturazione per Soccio.

         Gli echi della tradizione si incontrano con i richiami a Pascoli, d’Annunzio, i crepuscolari, poi, però, Soccio risente anche della lezione dei maestri della poesia nuova del Novecento, da Ungaretti a Montale, fino agli ermetici. In questo contesto di fine lettore di poesia Soccio cala i suoi temi preferiti, che ci permettono di ricordare gli aneliti, le speranze, ma anche il carico di sofferenze dell’uomo, alle prese con malanni fisici che facevano purtroppo presagire l’esito infausto della cecità. Ma c’era anche altro, visto che Soccio restò ben presto orfano di entrambi i genitori e soffrì la solitudine, come durante il periodo molisano, a contatto con una realtà a lui del tutto sconosciuta.

         Le poesie appaiono l’importante e preziosa valvola di sfogo per un intellettuale provato dagli eventi ma pur sempre deciso a ritagliarsi un proprio posto nel mondo. Per fortuna Soccio aveva l’abitudine di datare le liriche, e questo ci permette di vederle anche come un diario dell’anima. Ci sono i suoi desideri, i suoi sogni, le sue trepide speranze. La compagnia del verso è fidata e preziosa. Si pensi a Risveglio, una lirica del 1931, nella quale i rumori del mondo «mi scuotono e mi dicono/ che oggi venticinque gennaio/ io sono vivo ancora». Soccio ha bisogno di dirlo a qualcuno, e sceglie la poesia, consapevole della sua importanza, come sancito da una lunga tradizione, fiducioso nelle sue possibilità e nella sua forza.

         Leggendo queste liriche si trovano anche momenti più sentenziosi e rarefatti. Si pensi a L’unico dono, più tradizionale («Godere del sole liberi in riposo/ davanti ad una casa di campagna») o a Quiete, che richiama Ungaretti e la koinè ermetica: «Nasco tra vergini silenzi/ nuovo a me stesso e solo». Poche parole, in quest’ultima brevissima composizione, in cui c’è la speranza di una nuova fase, di una fuga dal negativo per trovare un approdo soddisfacente che non sia la fugace pausa di un attimo di tranquillità.

         Michele Galante, da parte sua, attento conoscitore della produzione di Soccio, premette delle pagine in cui rievoca le fasi dell’apprendistato e della pratica poetica dello scrittore di San Marco in Lamis. Le liriche sono state ritrovate tra le sue carte e rivelano i suoi ripensamenti, le sue varianti, i suoi giudizi su quanto composto. Trattandosi di composizioni in gran parte inedite, la scelta di ordinarle cronologicamente, individuando più periodi, appare razionale e utile per il lettore.

         Il preside garganico aveva anche pensato alla pubblicazione di una silloge, ma non a caso questo tentativo non si è realizzato. La verità è che Soccio, dopo gli stenti iniziali, individua finalmente un suo posto nel mondo, si ritaglia una propria identità di intellettuale e docente, uscendo fuori dal guscio di quella che poteva sembrare un’eccessiva autoreferenzialità.

         La musa poetica, pertanto, tace proprio nella fase più attiva dell’esistenza, per poi fare un timido ritorno dal 1978 al 1998, almeno a giudicare dalle 12 liriche incluse nella sezione finale, Periodo della senectus. Ma si tratta più di sussulti di ripiegamento che di una nuova fiammata.

         Soccio, docente e poi preside di liceo, si interessa di problemi pedagogici, filosofici, storici, persino politici, che gli appaiono incompatibili con la pratica del verso, con l’immagine di poeta. Questo cambiamento, in fondo, si ritrova in numerosi altri scrittori, ragion per cui non ci deve stupire. Soccio punta su altri studi, che ritiene più confacenti per il proprio modo di essere e di apparire.

         La conoscenza di queste poesie, pertanto, funge da conferma di un cammino seguito con tenacia e convinzione. Ma la vena poetica non si spegne del tutto in lui, bensì si trasforma, riemergendo in opere come Gargano segreto, del 1965, dove la prosa si mostra sensibile alle note liriche, ai brani sentimentali, a tutto ciò che connota sentimentalmente il rapporto tra l’io e la propria terra.

         In copertina di questo volume di Poesie 1925-1998 è riprodotta una fotografia del 1927, dunque scattata quando Soccio aveva 20 anni e dedicava liriche a Beethoven (Nel centenario della morte di Beethoven) o scriveva sonetti come Meriggio di marzo («Mamma al sol pensa e sferruzza,/ pensa a una sua lontana primavera…») o Apriamo le finestre al sole («Apriamo le finestre al sol che reca,/ su l’ali d’oro, sogni oltremondani,/ blandi sussurri di lontani mondi»). Nel suo volto ci sembra di leggere una speranza unita ad una più netta consapevolezza del dolore di vivere. Di certo, l’uomo continuerà a guardare avanti, anche se la visione apparirà sempre più fioca e annebbiata.

         Sfogliando il volume, insomma, troviamo una chiave per entrare più in profondità nell’uomo e nell’intellettuale Soccio. Quanto alle liriche in sé, non mancano dei momenti acerbi, delle ingenuità, delle asprezze verbali, ma ci sono anche degli sprazzi sinceri e ispirati che meritano di essere letti e assaporati.

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