LA MAGALDA

 

 

E’ un’opera fortemente condizionata dalla sua protagonista, una donna singolare, che arriva da lontano con le sue amiche, mettendo in atto una potente quanto misteriosa fattura. Il termine magalda è decisamente raro e vale meretrice, prostituta, ma anche fattucchiera, e lo aveva ripescato dal calderone della lingua d’Annunzio, utilizzandolo ne La figlia di  Iorio (“E dov’era colcato, sentiva/ piangere e lagnare le donne/ non per lui ma sì pel pastore/ magato da una magalda/ su la montagna distante”, Atto II, scena 6, vv. 16-20).  

Fraccacreta lo riprende in un contesto particolare. La magalda è una donna che viene dai monti (già ne La strada d’erba si afferma che costoro/ dei monti sono di fatture esperti, vv. 94-95), torbida e pericolosa, sin dall’iniziale descrizione delle nere bende che porta intorno al capo.

Essa si distingue nettamente dalle rimanenti vendemmiatrici, restando in silenzio, fino al momento della malia, per poi abbandonare il giovane ormai bruciato da quel sangue dolce.

L’azione è rapida e felicemente descritta, con i suoi netti contrasti e le sue vivide descrizioni della natura e dei protagonisti umani.    

 

 

1          Cinta la testa di due nere bende,

come ali, era la donna che guidava

le compagne. Scendevan d’Appennino,

lungo l’usate strade[1], alla vendemmia

5          del verde piano. E presto, con un vivo                      

scoppio di voci, fu scoperta, dietro

un poggio, la più bella vigna: un mare

di pampini, e, ammiccanti[2] tra i filari,

le riverse pannocchie[3] bianche rosse

10        vaie[4]. Serrato, il giovanile stormo                           

delle vendemmiatrici fece il canto[5],

ché non v’erano passere più ghiotte

di chicchi d’uva. Solo quella donna

restava muta. Un giovine ad aprire

15       venne, sottile ed agile qual giunco[6].                          

 

 

Avide come pecchie[7], tutte insieme

dapprima si slanciarono sui tralci

penduli di sonagli d’oro[8]: e d’uva

bianca i bigonci[9], al modo che le bocche,

20        incominciaron rapidi ad empirsi,                                

e di bigonci i carri. E come[10] spente

eran già le cicale, quel terrestre

coro sempre più alto si faceva

al sole del meriggio[11]. Ma il padrone,

25       giovine di vent’anni, all’allegrezza                            

il cuore non apriva, or fatto chiuso

e cupo dietro a quella donna bruna

che non cantava. E quella alfin, di scatto,

alla bocca gli mise, sdacinato

30       a mezzo dai suoi denti, il rosso graspo[12].                     

 

 

Egli bevve quel sangue dolce[13], e buio

vide nel giorno: alzandosi, alle reni

sentì uno scrocchio. Affatturato[14] ormai

era il sottile giunco. Con la falce

35       della luna, in cammino si rimise                                 

verso i monti lo stuolo sazio d’uva,

con a capo la donna[15] che ravvolta

era nelle sue bende; e il plenilunio[16]

salì sulla campagna zitta e rada

40       dei tardi grilli[17]. Per la porta aperta,                         

steso sul letto, il giovine sentiva

gemer[18] la vigna spoglia. Era nell’ombra,

con gli occhi fissi; né la tramontana

più rinfrescava a rifoli[19] il suo volto,

45        ormai bruciato da quel dolce sangue.                        


 

[1] l’usate strade: le solite strade, i tratturi.

[2] ammiccanti: balenanti, occhieggianti.

[3] pannocchie: i grappoli d’uva (riverse perché il frutto della vite quando cresce si  rovescia all’ingiù con il suo peso); il termine è tratto dalla sfera botanica, dove vale “infiorescenza composta a grappolo”.

[4] vaie: di colore tendente al nero (lett.).

[5] Serrato...canto: il canto delle donne diventa più veloce, incalzante, in segno di gioia. Con il collettivo stormo  il poeta evidenzia la coralità delle vendemmiatrici, simili a passere, la loro indistinta unità, staccando però decisamente la protagonista.

[6] Un giovine...giunco: il giovane è subito caratterizzato per la sua fragilità, la sua debolezza fisica e psicologica, che renderà più efficace la malia operata dalla montanara.

[7] pecchie: api. La magalda è ovviamente l’ape regina. 

[8] sonagli d’oro: chicchi d’uva bianca. Il nesso tra sonagli e chicchi è dato dalla comune forma sferica.

[9] bigonci: recipienti lignei più bassi e larghi delle bigonce, usati per raccogliere e trasportare l’uva.

[10] come: siccome, poiché.

[11] meriggio: mezzogiorno, ora di punta.

[12] sdacinato...graspo: è il gesto con il quale si compie la misteriosa fattura. La donna mette in bocca all’uomo un grappolo di uva rossa che per metà è sdacinato, quindi privo di acini, ma che nell’altra ha i suoi chicchi, dai quali esce il sangue dolce  del v. 31. Anche il colore dell’uva, dunque, diverso da quella bianca posta nei bigonci all’inizio della strofa, ha un suo significato simbolico evidente.

[13] sangue dolce: il dolce succo dell’uva, dal colore che ricorda il sangue, e che in questo modo si carica di terribile, malefica potenza. 

[14] Affatturato: è una fattura d’amore, che sconvolge la mente del fragile e inesperto giovane, del sottile giunco, bruciato dalla passione per questa donna malefica e fascinosa, ormai ritornata sui suoi monti.

[15] stuolo...donna: ancora una distinzione tra moltitudine e capo del gruppo.

[16] plenilunio: l’apparente contraddizione tra falce/ della luna (v. 34-35) e plenilunio si spiega pensando che quando le donne si allontanano dalla vigna, della luna piena, che si sta levando, si vede solo una parte, appunto la falce; più tardi, il satellite appare in alto e del tutto visibile.

[17] rada...grilli: al tempo della vendemmia solo pochi grilli ormai levano il loro canto.

[18] gemer: stormire.

[19] a rifoli: a folate, con soffi improvvisi e freddi.

   

       

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