INTRODUZIONE

 

 

San Severo è un concentrato di sole, pericolose gelate primaverili, favonio, tramontana, cemento e terra. Il segreto dello starci bene consiste nell’accettarne contrasti dalla forza dirompente di collisioni tra materia e antimateria.

Prendiamo la violenza, ormai proverbiale. Specie da quando, nel 1980, un branco indigeno massacrò un ragazzo e una ragazza di Torremaggiore che avevano cercato intimità in quella campagna che dovrebbe essere lo sfondo più ovvio dell’amore nella zona. All’epoca calarono gli sciacalli inviati dai quotidiani nazionali. Ricordo una frase, più o meno: «Questo è un paese dove si vendono più mangianastri che altro». Parole che non significavano niente, allo stesso modo di quelle sprecate in altre occasioni più recenti, quando San Severo è ritornata protagonista della cronaca nera.     

Non ci sono analisi che tengano. La violenza a San Severo risulta dalla natura com’è organizzata in loco. Sì, organizzata, perché produce frutti per nulla caotici e casuali.

Il sole e il clima secco, che rinforzano le ossa e fortificano i corpi, tempravano i guerrieri delle zolle, la schiatta agricola, capace di domare i campi e trasformarli in miracoli di proteine vegetali. L’emigrazione verso le fabbriche del nord ha avvilito a pallidi fantasmi metropolitani esseri nati per l’orizzonte sconfinato della pianura.

Ma quelli che sono rimasti, a non zappare più la terra, avevano nel sangue un surplus di vigore sfociato inevitabilmente nell’aggressività. Cui, questo sì, si sono aggiunte immagini di un Far West importato dall’America per bombardamento dell’immaginario. Prima della televisione multicanale, prima del cibersesso su Internet, prima degli psicofarmaci per smettere di fumare. I muratori e i braccianti superstiti andavano a vedere gli spaghetti western nelle sei sale cinematografiche adibite a riempire di senso i pomeriggi fino all’inizio degli anni ‘80. Citavano battute dalla morale semplificata, per esempio: «Quando un uomo con la pistola, incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto». E fischiettavano colonne sonore che erano inni alla sparatoria o minimo alla scazzottata per risolvere i punti di vista. Si preparava così l’educazione a risolvere le controversie quando avrebbe avuto a disposizione soldi e mezzi. Dunque, anni dopo, un tamponamento veniva dibattuto in rissa.

La violenza è energia soverchia. Lo senti anche in questo dialetto portato, di testa, ripulito da ogni traccia gutturale del circondario.

Non prende solo le vie del corpo, ma anche quelle della mente. San Severo è piena di creativi, a titolo diverso. Li accomuna un dato scientifico. Il talento può svilupparsi soltanto in condizioni estreme. Non ricordo un artista di Lugano.

In letteratura, specialmente, il sud ha dei modelli legati alla geografia, all’identità e alla lingua. Questo malgrado l’editoria abbia le sue sedi al nord e nel meridione si legga ancora meno che altrove, a peggiorare le già scarse propensioni nazionali verso i libri. Il che rischia di racchiudere il sud nel cerchio del folklore, delle lamentazioni e dell’autoconfigurazione di un Terzo Mondo in cerca di assistenza e comprensione pietistica.

Noi qui, sulla riva meridionale dell’Adriatico, abbiamo il vantaggio di due retaggi, quello europeo e quello mediterraneo. Del primo, deve interessarci la cultura dello stato e delle regole, che sono al di sopra dell’economia. Del secondo, millenni di solarità cristiana. Le crociate le hanno inventate religiosi asserragliati nel cuore della Francia medievale, distanti dalle rive dei commerci e del dialogo con l’oriente. L’Italia non ha bisogno di rimanere per sempre in posizione subalterna ai bastioni occidentali, perché la caduta del Muro l’ha resa Lamerica (vedi Gianni Amelio) degli albanesi e degli altri popoli che sbarcano qui in cerca di sogni analoghi a quelli di chi scendeva dai piroscafi su Ellis Island. Bisognerebbe innalzare nel Salento o sulla punta del Gargano una statua come quella di New York. Non dedicata alla libertà, mito stravolto dal capitalismo a briglia sciolta, bensì alla convivenza, alla comunione d’intenti, al dialogo. Tre valori di gran lunga superiori alla tolleranza, surrogato proposto dalla political correctness americana e dalla sua imitazione nazionale, il buonismo. Noi non siamo né corretti sul piano politico, né buoni. Siamo arraffoni, furbastri e cattivi. Riuscendo, in forza di questi difetti, a costruire l’arte della persistenza, della durata, e alla fine della radici. Cui si contrappone la precarietà del Nuovo Mondo, con le città su roulotte e le metropoli di vetroacciaio il cui skyline era a rischio senza saperlo.

L’esito più logico di tutto ciò nelle sensibilità individuali è la voglia di scrivere.

A San Severo esistono troppe sollecitazioni all’espressione letteraria, perché le si possa trattenere dentro. Di fatto, da sempre abbondano le pubblicazioni di autori locali. Più di uno, affermatosi fuori dalla cerchia del territorio.

Quello che si avverte oggi, però, è un bisogno più viscerale, diffuso anche tra i non giovanissimi, di entrare nel circuito della comunicazione. Il pubblico-massa vuole andare in televisione, come ha intuito un guru del video con la genialità perversa che si sviluppa a lavorare nel piccolo schermo. Ma l’intelligenza lucida e solipsista vuole misurarsi con canali ben più articolati di circolazione delle idee. La narrativa, la poesia, la saggistica: insomma l’uso creativo delle parole, che non saranno mai affossate dalle sole immagini. Raffaele Simone ha scritto un bellissimo libro La terza fase, nel quale analizza le nuove forme del sapere, multimediali rispetto a quelle umanistiche. Ebbene, proprio con l’invadenza dell’elettronica, sta sviluppandosi una forma spontanea di contenimento letterario. Sono sempre di più quelli che vogliono scrivere.

San Severo, da quel concentrato di forti umori mediterranei che è, ha visto crescere nel tempo l’urgenza di far venire allo scoperto risorse intellettuali. Ha cominciato quasi un ventennio fa la scuola, commissionando corsi di scrittura creativa rivolti ad insegnanti ed alunni. Contemporaneamente c’erano cineforum e iniziative analoghe del Centro dei Servizi Culturali.

Nel 2000, l’Amministrazione Comunale ha promosso un primo corso di scrittura creativa. L’affluenza e la partecipazione si sono allargate anche ai centri del circondario con punte di share, si direbbe alla televisione, di oltre 100 persone. Record, considerando che nel settentrione, dove scrittori professionisti tengono di continuo lezioni di narrativa, i partecipanti non toccano mai certi numeri.

Entusiasmo e costanza degli iscritti hanno così cementato un gruppo di lavoro, con il coordinamento del professor Francesco Giuliani. Ora l’iniziativa punta a divenire stabile, quindi più organica ed aperta a prospettive di crescita, con l’intervento, per esempio, di ospiti illustri, professionisti della narrativa, del giornalismo e della comunicazione.

Fin dalla prima serie di incontri, si è formato un gruppo quasi omogeneo di aspiranti narratori, che finalmente trovano il modo di condividere un’esperienza, quella creativa, fin qui vissuta in privato, o peggio, in solitudine. Già questo è un buon risultato: aver portato allo scoperto energie intellettuali che rischiavano di venire affossate.

L’idea di istituire una scuola di narrativa ed espressività in una città di provincia è vincente. I piccoli centri sono da tempo oggetto di illustri corteggiamenti Si pensi alla provincial-art. Sappiamo cosa riservano le realtà metropolitane. Ci saranno anche più stimoli, ma anche dispersione ed altre priorità di sopravvivenza. Mentre nel tessuto raccolto di una comunità nella quale riconoscersi e identificarsi esiste più spazio per la riflessione e l’espressione. Salvo che, poi, chi vuole affermarsi sul serio, deve proporre ciò che scrive nei grandi circuiti. Intanto possiamo offrire ai partecipanti la concreta possibilità di verificare e migliorare il proprio talento senza i ritmi frenetici della metropoli. È più facile da noi trovare il tempo di venire ai corsi.

Nel primo anno, il corso ha elencato in forma perfino semplificata le regole fondative della scrittura.

Gli addetti dell’editoria lamentano una scarsissima qualità negli scritti degli esordienti, dopodiché pubblicano proprio quanto di più diseducativo possa esserci sotto il profilo stilistico. La narrativa italiana di oggi e di ieri si caratterizza per eccessi di introspezione, mancanza di documentazione, gusto fine a se stesso per le atmosfere intellettuali. O peggio, la proposta di gerghi dialettali e generazionali che non coinvolgono chi ne è estraneo. Per quanto la televisione, la musica, abbiano uniformato i linguaggi, specie giovanili, la realtà peninsulare è frammentaria, e raccontare di una banda punk bolognese ha senso solo a Bologna e provincia. E meno male che comunque si è fatto qualche passo avanti rispetto alle direttive obbligate di qualche decennio fa. Allora, si scrivevano e riscrivevano essenzialmente tre tipi di storie: l’amore impossibile, il ritorno in provincia dopo le delusioni della vita metropolitana, i ricordi partigiani aggiornati dai più giovani agli anni della contestazione studentesca. Non che sia impossibile ricavarne ottimi esemplari narrativi, ma spesso anche gli stilemi erano obbligati e quelle tre direttive parevano percorse da un’unica mano scrivente. Lo spirito di una generazione, che in passato ha regalato alla letteratura scuole innovative, è divenuto un retaggio soffocante.

 

 

In ogni caso, pare che l’unico autentico destinatario sia il critico colto che con un’arguzia o una velenosità può decretare il successo o il fallimento dell’opera.

Non si prende alcuna iniziativa di creative writing in ambito accademico, come avviene negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nella vicina Francia (benché in quest’ultimo caso, si senta ancora troppo l’influenza non certo salutare delle correnti di pensiero che puntano a vivisezionare il testo, più che a insegnare come lo si costruisce). C’è qualche esempio del genere: i corsi tenuti da Giuseppe Pontiggia e Raffaele Crovi, la scuola torinese di Antonio Baricco. Ma si tratta di libera imprenditoria della cultura, laddove ci sarebbe bisogno di una pianificazione coordinata fra editoria, università e mercato. Soltanto così si potrebbe rinnovare e rilanciare la produzione narrativa italiana e rientrare alla grande nel flusso internazionale della creatività. All’estero infatti, siamo tradotti tutt’ora sotto forma di classici, con qualche eccezione per Moravia, Calvino, Busi e una sparuta schiera che si è conquistata meriti sul campo. Anzi, rispetto ai (pochi) contemporanei italiani tradotti all’estero, specie negli Stati Uniti, sorge un sospetto. Che li si proponga come merce da vetrina. Con lo stesso spirito che faceva apprezzare Ladri di biciclette, mentre Hollywood produceva blockbusters, successoni cinematografici in grado di succhiare spettatori a tutte le latitudini. Insomma, per mera condiscendenza intellettuale.

Da noi invece appaiono perfino gli esordienti degli altri Paesi, che il più delle volte confermano nel gradimento popolare la scelta editoriale. Arrivare all’estero è una meta essenziale, nel mondo senza confini commerciali e culturali. Costruire la società del futuro, multirazziale, tollerante, priva di nazionalismi, significa iniziare a costruire una lingua universale. Non l’esperanto o un suo surrogato. Una lingua che sia facilmente traducibile. L’aveva già intuito un autore grande e nel contempo prolifico, di quelli che Oreste Del Buono definirebbe “una macchina per fabbricare storie”, Georges Simenon. L’inventore di Maigret si dava addirittura come fine la riduzione del suo vocabolario, per convertire la narrazione in un sistema di parole che potessero ritrovarsi praticamente in qualsiasi lingua. Infatti Simenon è uno degli autori più tradotti del mondo. Lo stesso faceva Giovannino Guareschi, il papà di Don Camillo e Peppone, che in apparenza non si occupò mai di creative writing e cultura di massa, eppure scrisse libri che circolano in quasi tutti i Paesi.

Negli ultimi anni si pubblicano sempre di più dei manuali di scrittura creativa. Il più delle volte però vengono dagli Stati Uniti. Tutto quello a cui si fa riferimento presuppone un contesto americano. Non sempre i consigli, i suggerimenti, le “dritte” che contengono vanno bene da questo lato del pianeta. Le lezioni del primo anno volevano consegnare ai partecipanti un corredo formativo per affrontare il compito di realizzare la propria narrativa legandola all’identità mediterranea.

Gli incontri del secondo anno sono cominciati all’insegna di una variante non secondaria. Il corso è diventato scuola, segnando il passaggio dalla sperimentazione all’istituzionalizzazione. Mentre, superata la nozione di “regole”, si sviscerava fino alle più nascoste risonanze il concetto di voce narrativa. Ovvero la personalità dell’autore che emerge dall’aspirazione rattenuta all’espressione letteraria autentica.

Così, i partecipanti hanno incominciato a scrivere di se stessi e sono riusciti a raccontare delle storie che proponiamo in questa antologia che darà testimonianza del corso. Le abbiamo raccolte nella prima parte, intitolata Esordi, dove ognuno presenta il suo lavoro in assoluta libertà. Gli interventi redazionali sono stati minimi sui testi. Si è preferito aggiungere delle introduzioni che aiutino i lettori a prendere familiarità con i diversi stili dei racconti.

Nella seconda parte, invece, abbiamo incluso opere di chi già pratica la scrittura, legato alla realtà mediterranea. Io stesso ho voluto partecipare con un racconto inedito per affiancarmi agli altri e sottopormi con loro al giudizio dei lettori.

Si spera che questa antologia sia il primo volume di una serie che, successivamente, raccolga il progredire della scuola e i suoi frutti.

ENZO VERRENGIA

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