CAPITOLO PRIMO

L’IDEA DEGLI IDILLII ALPINI

 

 

I- UN CICLO D'INDUBBIO RILIEVO

 

     Il Novecento era ormai alle porte quando Giosuè Carducci pubblicava con la solita casa editrice, la Zanichelli, il suo ultimo volume di versi, Rime e ritmi, segnando l'arrivo di una carriera poetica che aveva occupato tutta la seconda metà dell'Ottocento, ingombrante in tutti i sensi, a seconda dei punti di vista, nel bene come nel male, presenza fondamentale ed imprescindibile oppure ostacolo e retaggio di una malintesa classicità.

     Il libro, finito di stampare il 15 dicembre del 1898, porta i millesimi dell’anno successivo, ma resta pur sempre nel diciannovesimo secolo, un dato che a qualcuno potrà sembrare quasi una sanzione del Destino, che ha voluto relegare irrimediabilmente Carducci nel secolo borghese, ma che è un semplice elemento cronologico, poco più che una curiosità, mentre ci apprestiamo a congedare un altro secolo.

     Tra le liriche che lo compongono occupano un posto di particolare rilievo le cinque composizioni apparse in un primo momento sulla “Nuova Antologia”, poco prima del libro, con il nome di Idillii alpini, alle quali va aggiunto Mezzogiorno alpino.

Si tratta di lavori, rappresentativi sia delle rime che dei ritmi, che sono legati contenutisticamente dallo sfondo paesaggistico, ossia da quella realtà montana, valdostana e lombarda, con la quale lo scrittore aveva preso consuetudine da alcuni anni e che fungeva da vitale diversivo rispetto alla routine della sua esistenza di professore e di intellettuale laureato.

E' una serie di composizioni nelle quali prevale il breve respiro, visto che passiamo dagli otto versi di Mezzogiorno alpino e de L'ostessa di Gaby, ai quattordici canonici dei sonetti In riva al Lys e Sant'Abbondio, fino ai ventotto di Esequie della Guida E. R. e ai quaranta dell'Elegia del monte Spluga, la più complessa e per alcuni versi atipica, che costituisce il canto del cigno artistico del Carducci.

Questa produzione ha spesso incontrato l’approvazione dei critici, colpiti dalla decantazione poetica di certi scenari e alla ricerca, con un criterio di variabile rigorosità, del volto più moderno ed accettabile, di quel nucleo ancora vitale per i posteri, diffidenti di fronte alle imposture della storia e freddi davanti ai protagonisti della stagione del Risorgimento e dell’Italia liberale.

Ai fervidi ammiratori del Vate e ai più tiepidi ricercatori del Carducci per così dire buono, che smette i panni aulici per una visione più fresca e viva della natura, non potevano in ogni caso sfuggire, nell’ambito del libro del tramonto, queste poesie, che contribuiscono in modo notevole, insieme ad alcune altre, a sollevare gli esiti artistici del volume al quale appartengono e, anzi, ne dimostrano la necessità e la logicità.

Si pensi alla disarmante grazia, che innamora alla prima lettura, pur in un contesto di grande e sorvegliata perfezione formale, di Alla signorina Maria A., un rondò formato da otto settenari e due sole rime, o alla malinconia di Presso una certosa, così ricca di spunti di meditazione.

Come ha notato tra gli altri il Binni, “la brevità è propizia in generale al Carducci”[1], e lo stesso critico ha incluso tra le rare, a suo giudizio, ma valide poesie di Rime e ritmi anche “i piccoli quadri a tenue e perfetto disegno e colore”[2] di Mezzogiorno alpino e de L’ostessa di Gaby, oltre ad esaltare la trama fiabesca dell’Elegia del monte Spluga.

Il Getto, da parte sua, ha posto l’accento sulla “fresca allegria di colori, di prati di smeraldo e di lucide acque, di rossi papaveri e di segale bionde, di cieli trasparenti e di candidi ghiacciai, di casolari dal fumo bianco e turchino e di balconi fioriti”[3], comprendendo nel suo discorso quattro delle sei poesie di cui ci apprestiamo ad interessarci; ancora di recente, poi, il Saccenti ha contrapposto “le imponenti apparecchiature della evocazione storico-epica e della celebrazione patria ai…nitidi e freschi bozzetti alpini…”[4], non senza aver ripercorso, nell’Introduzione ai due volumi curati per i classici dell’Utet, con grande efficacia le tappe principali della questione critica, rimarcando “l’unità della poesia carducciana nella personalità una e molteplice di Carducci, nella stessa attitudine e operosità sperimentale del poeta e nella conseguente pluralità dei risultati, entro quella generale nozione dell’innovare conservando, entro quello stesso generale disegno di riscattare il presente in un passato idealizzato”[5].

In sostanza, appare ormai chiaro che queste opere, nell’ultimo libro del poeta, rientrano a pieno titolo nel Carducci più ispirato (con buona pace del Mazzoni e del Picciola, che nella loro fortunatissima Antologia carducciana, più volte ristampata nel corso degli anni, destinata alle scuole, non compresero nessuno degli idilli), degne di gareggiare, per esiti artistici, con alcune altre universalmente note dello stesso autore, un artista dalla “mano particolarmente felice”[6], come nota il Capovilla, che “conferma l’attitudine alla contemplazione delle prospettive grandiose del paesaggio e la capacità di fissare istanti squisitamente idillici”[7].

Per converso, si rivelano sempre più singolari e ingenerosi giudizi come quello del Contarino, ad esempio, che parla di “gracilissimi quadretti montani, che non di rado, per quella retorica dei grandi silenzi, delle cime immacolate, dei nevai sfiorati dal sole, suggeriscono piuttosto l’idea di un impressionismo da turista entusiasta”[8].

Secondo noi, invece, tra i bozzetti alpini si trovano alcuni dei capolavori assoluti di Carducci, come Mezzogiorno alpino, che non a caso è facile trovare riportato anche nelle antologie scolastiche, e L’ostessa di Gaby, senza dimenticare l’Elegia del monte Spluga, oltre a pagine di buona poesia, sia pure con qualche momento di stanchezza, perfettamente godibili ad un secolo di distanza, anzi, ancor più interessanti per quel bisogno di autentico e di naturale che ci prende sempre più forte, di fronte alla meccanica e convulsa realtà quotidiana.

Del resto, in questo desiderio di rivelazione e di autorivelazione c’è lo spazio più profondo della poesia, la sua ragione di essere letta e gustata, al di là del variare delle mode e delle ideologie, caduche come quell’”acqua” che garrisce solitaria nell’immenso mezzogiorno.  

 

 

 

II- STORIA DEGLI IDILLII ALPINI

 

Gli Idillii alpini appaiono in apertura del fascicolo del 16 novembre 1898 della “Nuova Antologia”, diretta da Maggiorino Ferraris[9], e tra le carte bolognesi del poeta si conservano ancora l’estratto e alcuni ritagli giornalistici relativi.

Il Nostro viene ricordato anche nelle Notizie contenute sullo stesso numero della rivista e tocca a lui, noblesse oblige, la prima menzione, mentre la seconda, per la cronaca, spetta a due volumi di Antonio Fogazzaro: “Giosue Carducci pubblica in questo fascicolo dell’Antologia i suoi Idillii Alpini e crediamo attenda ad uno studio su Orazio, che comparirà nel prossimo anno”[10]. Il riferimento, in verità, è alle traduzioni delle odi del poeta di Venosa, che costituiscono uno dei tanti impegni del Nostro in quest’importante anno. 

L’idea di dare vita a questo ciclo poetico matura non molto prima, e le lettere del periodo estivo, sicuramente proficuo, non a caso spesso citate dai commentatori delle singole composizioni, ci forniscono delle chiare indicazioni in merito.

Fondamentale è quella del 9 agosto a Severino Ferrari, nella quale invia al fidato discepolo il sonetto In riva al Lys, avvertendolo di non pubblicarlo per il momento: “Se non ti dispiace, conto metterlo in fronte a un gruppetto di bozzetti alpini, che saranno: L’ostessa di Gaby; Il funerale della Guida, Lo chalet del sindaco; Il Lys”[11].

Il più stretto collaboratore, destinato ad una penosa fine avvolto nelle tenebre della mente, è a Firenze, alle prese con il caldo della stagione e con il laborioso commento ai versi del Petrarca, di cui si parla spesso nel carteggio con il maestro; il 6 agosto egli aveva chiesto un sonetto a Giosuè, cogliendo il suo interesse per il Lys, come vedremo più precisamente nel relativo commento. Un corso d’acqua si associa al fresco e al refrigerio, così Severino scrive: “mi dedichi un sonetto che io pubblicherò subito in tutti i giornali, e mi consolerò del tanto faticar[12].

Il sonetto, dunque, arriva, ma senza la possibilità di darlo alle stampe; l’allievo, sempre pieno di reverenza nei suoi scritti, è al settimo cielo per l’omaggio e nello scritto successivo, tra mille ringraziamenti, nota che Carducci è davvero ritornato ad una nuova giovinezza, aggiungendo la richiesta di poter ricevere i restanti scritti del ciclo: “Sarà tanto buono da mandarmi anche gli altri idillii alpini? La ringrazio fin d’ora”[13]. La lettera è del 10 agosto. 

Le poesie erano quattro, come si vede, nei propositi dell’autore, e c’era ancora da lavorare, ma Carducci vi sta dedicando le sue attenzioni, con notevoli risultati. Il sonetto spedito al Ferrari era stato appena scritto, L’ostessa di Gaby era stata ritoccata il primo agosto, ma risale al 1895, anno in cui, dopo l’incredibile sventura, aveva steso la traccia in prosa dell’idillio Esequie della guida E. R., alla cui parte iniziale in versi aveva lavorato l’8 agosto 1898. Restò una pia intenzione invece la composizione del bozzetto che doveva forse costituire il momento più felice e disimpegnato del ciclo, ispirato com’era allo “spaccio di vino a Courmayeur, del quale il sindaco, monsieur Savoye Laurence, era proprietario e il poeta fedele e affezionato cliente”[14].         

     Un legame cementato dalla comune passione per i prodotti di qualità. Il tema, in ogni caso, sempre vivo, pur nel regno delle acque e dei ghiacciai, resta affidato all’ostessa che versa dello scintillante vino all’arrivo a Gaby, protagonista sin dal titolo della bella barbara.

     Da questi primi dati, appare evidente che i bozzetti alpini erano legati al solo mondo valdostano, conservando un’unità costituita appunto dal loro carattere di brevi componimenti ispirati a ambienti, eventi e personaggi della realtà alpestre. Di qui l’attenzione, con l’uso di vividi elementi cromatici, rivolta alla gentile ostessa incontrata o immaginata in un’escursione, al piccolo corso d’acqua che domina la valle di Gressoney, al funerale della guida Emilio Rey o, se fosse stato scritto, allo chalet del primo cittadino.

Quadri poetici, insomma, di una zona cara ormai da anni al Carducci e sulla quale aveva posato le sue attenzioni, nell’ambito prosastico, il Giacosa, con le sue note Novelle e paesi valdostani, del 1886, ancor oggi di gradevole e facile lettura, oltre che di agevole reperimento, che Giosuè di certo conosceva.

Nell’epistolario si leggono queste parole, purtroppo con una lacuna finale, del Nostro all’autore della Partita a scacchi, scritte il 22 luglio 1887: “Sono sul partire per Aosta e Courmayeur, dove mi tratterrò tutto agosto. Ciò desidero che sappia l’illustratore più geniale della più […] valle alpina”[15].

E’ noto che Giacosa gli farà da guida nella visita dei castelli della zona. Peraltro, il 22 luglio, da Courmayeur, Giosuè dirà a Cesare Zanichelli: “Ho ricevuto Novelle e paesi valdostani. Grazie. Veda se di Giacosa può mandarmi anche I castelli della Valle d’Aosta[16].

In Novelle e paesi valdostani trovano ampio spazio poveri montanari e guide coraggiose, casi patetici e avventure di una popolazione ingenua ma temprata dal contatto con un ambiente ostile e infido, pur nella sua straordinaria bellezza, in cui lo splendore delle nevi si unisce alla devastazione delle valanghe. Qui incontriamo, ad esempio, personaggi come Guglielmo Rhedy, che “era nativo di Gressoney-la-Trinité, dove abitava una casa sulla sinistra del torrente Lys”[17], e si accenna al linguaggio tedesco di molti abitanti della zona, in una regione in generale francofona che svelava sempre più le sue caratteristiche al grande pubblico.

Scritti alpini si trovano anche altrove, ovviamente, e la stessa “Nuova Antologia” del 1898 ospita nel fascicolo del primo luglio uno scritto in prosa di Alfredo Baccelli, Ricordi delle Alpi, che si apre con la descrizione di una domenica a Macugnaga, in Piemonte, ai piedi del Monte Rosa, mentre sul fascicolo del 16 dicembre, posteriormente quindi alla pubblicazione degli idilli carducciani, appare una sua poesia, abbastanza mediocre, intitolata Notte sulle Alpi, grondante di letteratura e di enfasi.

Ma di fronte a questa realtà contenutistica, ormai decantata dentro di lui, e dopo le esperienze di tanti scrittori, a livello di letteratura europea, che dalla seconda metà del Settecento in poi, a partire dall’influentissimo Rousseau, avevano prodotto una sorta di scoperta della montagna, non più vista come un inerte e stereotipato sfondo, ma come una realtà viva e palpitante, da rapportare all’io, Carducci poteva tranquillamente far valere il peso della sua inconfondibile personalità artistica, dando nuovo slancio alla sua ispirazione[18].

Il ciclo alpino è in gestazione e non ci meraviglia che la risposta alla richiesta del Ferrari del 10 agosto arrivi, in pratica, dopo una veloce letterina del 19 agosto, solo con la missiva del 5 settembre.

Proprio il 19 agosto 1898 Giosuè si reca a Madesimo, in provincia di Sondrio, altro luogo a lui caro e che della frequentazione del poeta va ancora fiero, ricordandola persino ai navigatori di Internet. Qui, dove domina il pensiero di Annie Vivanti, il ciclo dei bozzetti si completa, aprendosi a due nuove composizioni scritte ex novo, Sant’Abbondio ed Elegia del monte Spluga.

La prima è composta tra il 31 agosto e il primo settembre e quattro giorni dopo, il 5, viene inviata in una lettera all’amico Severino; la seconda è scritta tra il primo e il quattro dello stesso mese e corretta il sei.

In questo modo, venuto meno Lo chalet del sindaco, le poesie diventano cinque, tante quante ne servivano al poeta, che nella lettera a Mario Menghini del primo settembre ricorda per l’appunto di essere obbligato “a dare cinque idillietti a Maggiorino”[19], ossia al direttore della “Nuova Antologia”, aggiungendo nel prosieguo dello scritto che il direttore della rivista “è di quei baccelloni, un po’ insolenti, che mi blateran poeta”[20], e di conseguenza preferisce pubblicare i suoi versi piuttosto che i suoi lavori in prosa.

Le polemiche di Giosuè contro i poetastri e gli improvvisatori sono non a caso famose e ricorrono in varie lettere di diversi periodi.  

La sfumatura contenuta in “idillietti si spiega con il tono scherzoso della lettera, ma fa anche riferimento al loro breve respiro e alla loro grazia artistica. Del resto, Sant’Abbondio era un sonetto e neanche lui poteva ancora conoscere il respiro definitivo dell’Elegia.

Nel complesso, quando scrive a Severino, il 5 settembre, fa la sua comparsa una lirica di cui non aveva parlato ad agosto, ossia Sant’Abbondio, insieme a L’ostessa di Gaby, già anticipata.

Va detto che Ferrari è senz’altro il primo critico, benché tutt’altro che imparziale, per soverchio amore, degli idilli, viste le parole piene di entusiasmo della sua lettera dell’8 settembre (“stupendo il sonetto e bellissima ‘L’ostessa’; chiuse che passano battaglia; come sempre”[21]).

Il 6 ottobre, poi, parlando dell’ode Alle Valchirie, di cui aveva ricevuto dal Carducci una versione, afferma: “Io davvero resto atterrito, dopo gli idillii!”[22]. Voleva evidentemente sottolineare la copiosità, oltre che la profondità, della vena del maestro, impegnato nella sua nuova giovinezza.

Per chiudere il discorso sul Ferrari primo e generoso critico degli idilli non possiamo tralasciare l’epistola del 29 novembre, successiva all’uscita del fascicolo della “Nuova Antologia” del 16 novembre.

Il 17 Carducci aveva scritto al collaboratore promettendogli che avrebbe presto ricevuto il ciclo poetico (“Avrai presto gl’idillii alpini”[23]) e in ogni caso il 29 Severino scrive: “Soltanto ieri ho potuto vedere la Nuova Antologia. Ella non mi aveva mica fatto cenno dei nuovi distici elegiaci! Ma sono ancora superiori agli altri delle Valchirie! Da un pezzo non avevo provato tanta intensa commozione dinanzi a tanta pienezza di poesia, e di novità fantastiche, di mosse, di stile, di lingua, di tutto: e quanto sentimento di cuore e di natura. E’ tutta una grande meraviglia, tale ch’io non so neppure trovar parole ed iperboli che agguaglino. Domani torno all’Istituto a ricopiar l’elegia: colore, effetto, fantasia, tutto divino”[24].

Il passo è rimasto un po’ ignorato dalla critica e comunque incuriosisce perché Carducci, contrariamente a quanto scrive Severino, gli aveva parlato, nella lettera del 5 settembre, con precisione della più lunga opera del ciclo alpino, con parole famose, che si trovano in ogni commento della lirica: “E se tu sarai buono, un’altra volta ti manderò l’elegia delle fate o delle ninfe o sì vero del monte Spluga, o se vuoi degli scoiattoli e delle marmotte”[25].

Severino non aveva fatto caso al passo o aveva ritenuto che si trattasse di un progetto rimasto lettera morta; di certo, il fidato collaboratore, che ha molte attenuanti per la sua distrazione, non tiene per sé la sua sorpresa, a conferma della sua buonafede.   

Lo stesso 5 settembre 1898, scrivendo al direttore della “Scena illustrata”, a Firenze, Carducci aveva sottolineato, alla richiesta di versi da pubblicare, di non avere poesie pronte, e che “quelle che già feci le ho tutte impegnate”[26], aggiungendo delle considerazioni generali. Quando, però, gli giunge la notizia della morte cruenta di Elisabetta di Baviera, la fantasia si mette in moto e nasce la barbara in distici elegiaci intitolata Alle Valchirie, che invia al Menghini con queste parole: “Questa elegia, e lo merita, deve esser contata per sé fuor degl’idillii”[27]

Affermando ciò Carducci non voleva evidentemente esprimere un giudizio di merito sul ciclo alpino, quanto favorire, con orgoglio di autore, la valorizzazione del lavoro, che nasceva da un evento ben preciso ed aveva delle caratteristiche diverse da quelle delle altre poesie. Tutto questo non poteva sfuggire al Nostro, che vorrebbe affidare Alle Valchirie alla stessa “Nuova Antologia”, dove però non apparirà mai per le allusioni politiche dei distici 3 e 4, che spaventarono il diplomatico direttore, attento a non crearsi inutilmente dei nemici.

Di qui il dirottamento sulla “Rivista d’Italia” dell’opera, che presenta alcuni lampanti punti di collegamento con l’Elegia del monte Spluga, a partire dal metro, dall’inserzione di figure mitologiche e dalla contaminatio tra elementi culturali di diversa provenienza. 

Quest’ultima lirica, però, resta destinata, a distanza di due mesi, ad occupare il posto di chiusura negli Idillii alpini, sulla “Nuova Antologia” del 16 novembre.

Prendendo ora in considerazione le due liriche alpine nate a Madesimo, si può notare senza difficoltà che mentre Sant’Abbondio, il sonetto dedicato al giorno del santo patrono del comune lombardo, con le sue descrizioni naturalistiche e umane, con la sua malinconica meditazione sulla vita e sulla morte, è molto vicino alle tre iniziali liriche di soggetto valdostano, specie a In riva al Lys (per non parlare, scendendo indietro nel tempo, di Courmayeur), l’Elegia ha caratteri più peculiari e più complessi, con la drammatica, sofferente partecipazione dell’uomo Carducci e con l’apprezzatissima trasfigurazione finale, che rende la quintessenza della desolata solitudine.

Un’opera molto bella, che tornò in qualche modo comoda al Carducci per chiudere la sezione poetica, ma che in fondo non manca di qualche forzatura nella collocazione (molto più adatto sarebbe stato, ad esempio, seppur troppo breve, Mezzogiorno alpino).   

L’ordine in cui appaiono gli Idillii alpini, che l’autore segnò sui manoscritti, è rispondente alle date poste alla fine dei versi, sul cui rapporto con quelle di composizione ritorneremo ancora in seguito, con la sola, rilevante eccezione della poesia d’apertura: In riva al Lys, L’ostessa di Gaby, Esequie della guida E. R., Sant’Abbondio, Elegia del monte Spluga.          

     Che Carducci avesse in animo di anteporre la lirica che ha dato una qualche notorietà al torrente valdostano, lo abbiamo già visto nella succitata lettera al Ferrari del 9 agosto.

Il motivo di questa scelta ci sembra chiaro: In riva al Lys contiene degli elementi di poetica, che introducono allo spirito dominante in questa produzione; il sonetto ricorda infatti la predilezione del poeta per il verso rispetto alla prosa, elogia la tradizione, di cui Petrarca è uno degli interpreti canonici, e riveste di umiltà e di essenzialità la stanchezza esistenziale, quell’avvertimento della vanità di ogni cosa, per riprendere l’Ecclesiaste, che fa spesso capolino nell’ultimo Carducci e che si dimostra poeticamente vitale.

Stanchezza ed umiltà, unite alla cordialità nei rapporti umani, sono un connubio topico ma proficuo per Giosuè, che aveva in mente tanti esempi del passato, a partire dalle suggestioni oraziane.

La bellezza e l’imponenza della natura lo sollecitano a riflettere, a meditare su ciò che resta e ciò che passa, e ad emblema della vera permanenza, nel campo nel quale ha operato per tutta la vita, assurge il cantore di Laura, il cui Canzoniere, com’è noto, Giosuè era intento a commentare con l’aiuto del fido Severino, al quale si sente perciò ancor più vicino.

Questa dichiarazione artistica connota in un certo qual modo il ciclo alpino e non va trascurata, conferendo alle opere successive un riflesso particolare, un riverbero che lascia il suo segno sulla pagina radiosa di Gaby, assaporata nella sua luminosità, sul funerale dell’eroe prematuramente scomparso, visto come un fatto tragico ma ineluttabile, e perciò dolorosamente accettato dai compaesani, sul quadretto di vita paesana, nel quale la stanchezza si materializza nella quiete del cimitero, alla quale fa seguito una dichiarazione d’amore per la vita, sulla solitudine di chi ha perso Annie, la giovinezza e la poesia. 

Le rime sono tre (In riva al Lys, Esequie della guida E.R. e Sant’Abbondio), di cui due sonetti, mentre due sono i ritmi (L’ostessa di Gaby e l’Elegia del monte Spluga), entrambi in distici elegiaci; l’autore lavora alle une come agli altri negli stessi periodi, senza particolari differenze, nello spirito generale dell’ultimo libro. Aggiungendo Mezzogiorno alpino, con le dovute precisazioni, avremo una preminenza più netta dei lavori che seguono la tradizionale metrica italiana.         

 


 

[1] W. BINNI, Carducci e altri saggi, Einaudi, Torino, 1960, p. 52.

[2] Ivi, p. 48.

[3] G. GETTO, Carducci e Pascoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1965, p. 50.

[4] M. SACCENTI, Opere scelte di Giosue Carducci, Utet, Torino, 1993, vol. I, p. 949.

[5] M. SACCENTI, Introduzione, in op. cit, vol. I, pp. 46-47.

[6] G. CAPOVILLA, L’opposizione del classicismo. Giosue Carducci, in Storia della letteratura italiana, dir. da Enrico Malato, Salerno, Roma, 1999, vol. VIII, p. 358

[7] Ibidem.

[8] R. CONTARINO, Giosuè Carducci, in R. CONTARINO- R. M. MONASTRA, Carducci e il tramonto del classicismo, Letteratura Italiana Laterza, Bari, 1981 , vol. 53, p. 128. 

[9] “Nuova Antologia”, 16 novembre 1898, pp. 193-96.

[10] Ivi, p. 377.

[11] Lettere di Giosue Carducci, Edizione Nazionale, a cura di M. Valgimigli, Zanichelli, Bologna, 1957, vol. XX, p. 153. Di seguito, indicate con LEN.

[12] Lettere di Severino Ferrari a Giosue Carducci, a cura di D. Manetti, Zanichelli, Bologna, 1933, p. 216.

[13] Ivi, p. 217.

[14] M. BIAGINI, Il poeta della terza Italia. Vita di Giosue Carducci, Mursia, Milano, 1971, p. 774.

[15] LEN, vol. XVI, p. 156.

[16] Ibidem.

[17] G. GIACOSA, Novelle e paesi valdostani, Treves, Milano, 1927, p. 52.

[18] Sul tema si veda, tra l’altro, di A. MAZZA TONUCCI, Il senso del “sublime” e la scoperta della montagna nella cultura europea, da Rousseau al Manzoni, in “Otto/Novecento”, anno XI, n. 2, mar.-apr. 1987, pp. 5-23. La studiosa ricorda anche l’attenzione alla montagna nell’autore dell’Adelchi, in particolare nel racconto che il diacono Martino fa del suo viaggio: “Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi,/ e, in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla/ traccia d’uomo apparìa: solo foreste/ d’intatti alberi, ignoti fiumi, e valli/ senza sentier: tutto tacea; null’altro/ che i miei passi io sentiva; e ad ora ad ora/ lo scrosciar dei torrenti, o l’improvviso/ stridir del falco, o l’aquila, dall’erto/ nido spiccata sul mattin, rombando/ passar sovra il mio capo, o sul meriggio,/ tocchi dal sole, crepitar del pino/ silvestre i coni…”(atto II, scena 3, vv. 84-95; la citazione è a p. 19). Un passo che la stessa studiosa definisce “Antenato del carducciano mezzogiorno alpino, o anche del montaliano mereggiare ligure”, nel quale “la piccolezza dell’uomo può contemplare la grandezza della natura senza rimanerne schiacciata” (ibidem). In effetti qualche analogia, specie nel finale, c’è con Mezzogiorno alpino. Nella montagna, in ogni caso, Carducci non ritrovava, come Manzoni, la presenza di Dio, ma di certo attraverso di essa giungeva ad una Verità laica, ad una illuminazione sull’eterno e sul transeunte, sul senso delle proporzioni, sulla sostanza e sull’apparenza. Di fronte alla montagna, insomma, il vero viene sempre alla luce.   

[19] LEN, vol. XX, p. 164.

[20] Ivi, p. 165.

[21] Lettere di Severino Ferrari…, cit., p. 218.

[22] Ivi, p. 220.

[23] LEN, vol. XX, p. 186.

[24] Lettere di Severino Ferrari…, cit., p. 228. Nel testo a stampa al posto di Valchirie si legge Valchisee.

[25] LEN, vol. XX, pp. 167-68.

[26] Ivi, p. 168.

[27] Ivi, p. 174.

   

 

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