"A rúchë Torrëvècchië" DI EUGENIO TOSTO     

 

         Negli ultimi anni, com’è noto, l’interesse per il dialetto è cresciuto un po’ ovunque. Anche la nostra provincia non fa eccezione e in vari comuni sono stati pubblicati dei vocabolari o delle sillogi di favole o racconti, che hanno incontrato una buona accoglienza presso i lettori.
         In quest’ambito rientra senz’altro il libro “A rúchë Torrëvècchië”, scritto da Eugenio Tosto (Edizioni del Rosone, Foggia, 2011, pp. 173, euro 13), sottotitolato “Raccùnde (Fàttë, vusànzë e cchëstumë dë na vótë)”.

         Tosto, classe 1925, è nato a Torremaggiore e per molti anni è stato docente di lettere, prima presso la locale scuola media, poi nel liceo classico “Fiani”; l’ultima parte della sua carriera lo ha visto impegnato come preside a Firenze, dove vive.  

        La nostalgia della terra nativa, però, è rimasta sempre viva, come lo stesso autore confessa, dedicando il suo lavoro “A Torremaggiore/ e ai Torremaggioresi ovunque residenti/ con grandissimo amore”. Tosto ha pubblicato nel 2005 un romanzo intitolato “Le sanguisughe di Torralta”, seguito, poi, dal libro di cui ci occupiamo in questo nostro articolo. Entrambi i lavori riguardano la cittadina federiciana, com’è facile comprendere.

         Il titolo “A rúchë Torrëvècchië” fa riferimento alla parte abitata più antica di Torremaggiore, nelle cui campagne cresce copiosa la rucola o ruchetta, un’erba molto presente nella cucina povera del recente passato. Si tratta, dunque, di un ritorno agli anni giovanili, a quel mondo contadino distrutto repentinamente nel secondo dopoguerra del Novecento, ma che è rimasto ben impresso nella mente di chi lo ha conosciuto in presa diretta. In questa realtà sono ambientati gli 8 brevi racconti composti da Tosto in vernacolo torremaggiorese e inseriti nella pagina con a fianco, a stretto contatto, la versione in italiano, con una scelta che assicura la diffusione del libro anche al di fuori dell’ambito dauno.

         I racconti sono ricavati, premette l’autore, da fatti realmente avvenuti, anche se sono liberamente rielaborati. Di qui i protagonisti, presenze consuete del mondo contadino, alle prese con i lavori dei campi e i tradizionali rituali matrimoniali. Storie a lieto fine, raccontate con garbo e brio, puntando sulle trame più che sull’approfondimento psicologico, ma anche vicende dolorose, che terminano in tragedia.

         Tipico della prima maniera è il racconto d’apertura, “L’insalata riccia”, storia di un pesante scherzo giocato al proprietario di un terreno. In paese si diffonde la voce che il Turco doveva estirpare l’orto, così ognuno poteva raccogliere gratis la verdura che vi cresceva. Tutti gli abitanti corrono a fare incetta di insalata riccia, facendosi delle grandi abbuffate. Il Turco, arrabbiato, denuncia il furto ai carabinieri, ma poi tutto finisce nel migliore dei modi.

         Una vicenda di amicizia e di morte è invece al centro di “Compagni per la pelle”. Oreste e Giovanni sono legatissimi tra loro e così, quando un fulmine uccide il primo, l’altro ne resta sconvolto, fino a decidersi di buttarsi in un pozzo, come a volerlo seguire in un’altra vita.

         Il racconto più riuscito in assoluto ci è sembrato il terzo, “L’imbasciata”, nel quale si ritrovano tutti i rituali legati alle nozze. In un mondo nel quale i rapporti tra uomini e donne erano rigidamente disciplinati, le regole apparivano ferree, salvo dover ricorrere all’espediente della fuga d’amore. Nel brano in questione, il giovane Raffaeluccio si invaghisce di una bella ragazza e i suoi parenti si recano a casa della fidanzata per chiedere ai genitori ufficialmente la sua mano. La fretta, però, gioca un brutto scherzo all’innamorata pazzo perché le due famiglie concordano il matrimonio del giovane con la ragazza sbagliata. Raffaeluccio vuole in sposa la secondogenita, non la primogenita, e la situazione appare delicata, tirando in ballo l’onore e la parola data, ma per fortuna le donne riescono a sbrogliare la matassa, con un duplice matrimonio finale.

         Interessante è anche il racconto finale, “Passi nella notte”, che richiama alla memoria il tram che collegava Torremaggiore al vicino centro di San Severo.

         Va detto, però, che l’interesse di Tosto non è rivolto solo all’aspetto narrativo del dialetto, ma anche a quello linguistico. Di qui la presenza di un ricco glossario, contenente delle utili notizie sul vernacolo torremaggiorese, e di varie pagine dedicate al lessico, nelle quali Tosto ha ripreso il materiale da lui pubblicato in alcuni volumetti apparsi dal 2007 al 2010. Un insieme di dati nel complesso utile, in mancanza di un organico vocabolario e di una consolidata tradizione vernacolare.

         Alla fine, dunque, “A rúchë Torrëvècchië” appare un testo in grado di rievocare il passato, di interessare i giovani, ma anche di porre la necessità di ulteriori scavi linguistici nel vernacolo del centro federiciano.

 

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