PREFAZIONE

 

 In un momento, come quello attuale, in cui l’attenzione degli studiosi e del pubblico sempre più si rivolge alla ricerca, non priva di insidie, delle cosiddette radici, e in cui emerge con forza l’aspirazione al riconoscimento della propria identità culturale da parte dei vari centri periferici in cui si articola la storia del nostro paese, è da salutare con compiacimento la pubblicazione del volume di Francesco Giuliani, per l’equilibrio e la sagacia metodologica del discorso che vi si conduce.

Il segno più evidente dell’attitudine scientifica dell’autore, che è studioso serio e tenace, è nella sua capacità di coniugare la passione civile e l’amore municipale con la dimensione critica, l’attenzione erudita e l’orgoglio municipale con la consapevolezza dello sfondo nazionale, in un intreccio di reciproca illuminazione.

Non a caso, quasi emblematicamente, il volume si apre con un saggio sulla ‘fortuna’ periferica del Carducci, del quale "si attende ancora una doverosa rivalutazione", al di là delle ragioni strumentali e ideologiche che, subito dopo la morte, ne decretarono il largo e ambiguo favore a scapito dei motivi più propriamente lirici.

Non v’è dubbio che un sondaggio di tal genere, debitamente condotto, può configurarsi come un opportuno tentativo di comprensione dei processi di costituzione e caratterizzazione della cultura regionale.

In questo ambito si colloca la ricostruzione dell’iniziativa dei ‘festeggiamenti’ carducciani, intrapresa a San Severo e ripercorsa, da Giuliani, con dovizia di documentazione, anche inedita, attraverso il recupero di una serie di personaggi minori che concorrono a determinare il clima paesano di quegli anni, arricchendosi tuttavia di acute e significative notazioni, come quando si ricorda che il Pascoli, al Mandes, che lo invitava a San Severo a commemorare il vate maremmano, elegantemente richiamava l’esigenza di non ridurre le Myricae alle sole liriche nelle quali risuonavano con maggior forza i dolori familiari.

Alla rievocazione della vicenda celebrativa si lega il profilo politico, sociale e culturale della città dauna, che, nel suo bisogno di autorappresentazione, alimentava una fioritura di iniziative giornalistiche che, pur nella loro impronta localistica e nel loro ruolo gregario e subalterno, ambivano ad essere lo specchio della realtà nuova che si muoveva sotto l’apparente immobilismo, consentendo talvolta – si pensi a "La Vita" – una diretta lettura dei modi in cui venivano aggrediti i problemi della società contemporanea.

Di qui la riesumazione di una pattuglia di nomi locali, ma non solo locali, e l’emersione di una serie di dati che riguardano i rapporti degli intellettuali sanseverini con i principali centri di attrazione culturale, la situazione scolastica e la conformazione sociale della città, le sue anguste lotte politiche.

Sono nomi che spesso l’avarizia del tempo e delle letture ci ha fatto ignorare e che ora, grazie a Giuliani, veniamo scoprendo con curiosità, con simpatia, con sorpresa, direi persino con avidità: riviste, istituzioni, operatori culturali emergono dalle tenebre per animare un quadro vivo di presenze, a partire da quella dei promotori della pubblicazione del numero unico del 1907, testimonianza di un appuntamento commemorativo cui concorsero tutte le realtà locali, e in particolare la Massoneria, che nel poeta individuava uno dei suoi più alti punti di riferimento, soprattutto in virtù dei suoi spiriti anticlericali.

 

 

L’orazione ufficiale di Andrea Rapisardi-Mirabelli, al di là dei suoi limiti oggettivi, è indicativa, per esempio, della ricezione degradata del suo magistero stilistico, e, al tempo stesso, del gusto letterario del tempo, al punto che, rimarcando gli esiti non sempre felici del suo insegnamento e della sua monumentalizzazione, il relatore lamenta, come giustamente rileva Giuliani, che l’opera di Carducci, chiudendosi in sé stessa, segna l’approdo finale della Terza Età, senza aperture sull’avvenire.

Ma non sono insignificanti nemmeno gli altri contributi raccolti nel volumetto, in cui si ritrovano affiancati due traduttori del Veianius, il poemetto che fruttò a Pascoli la medaglia d’oro al concorso di Amsterdam: Carlo Luigi Torelli, lettore ‘cattolico’ del Carducci, e Giuseppe Checchia, collaboratore della "Nuova Antologia", che, da posizioni classicistiche, disapprova nettamente i "cenciaioli" veristi o simbolici del suo tempo.

Più che la cronaca delle manifestazioni, ripropostì a con piglio narrativo, è interessante il ricordo che vi si introduce di Giuseppe Marchese, allievo del poeta a Bologna, operatore benemerito di cultura, di cui vengono rievocati i saggi leopardiani, intessuti – mi pare – di suggestioni desanctisiane, e della moglie Maria Siotto-Ferrari, pure allieva del Carducci, testimone e protagonista di un esemplare aneddoto di rigore e di intransigenza accademica, o di Carolina Cristofori Piva, una signora foggiana che fu probabilmente amata dal poeta.

Una schiera, insomma, di intellettuali e di docenti nomadi e malpagati, che, come nota Giuliani con acutezza sociologica e, forse, con una punta di nostalgia conservatrice, "trovavano una contropartita alle loro ristrettezze nel prestigio sociale derivante dal loro ruolo di insegnanti, nella loro funzione di gangli di trasmissione di valori e di modelli educativi, nell’ambito di una scuola forte, che non aveva ancora smarrito la propria identità alle prese con la massificazione della cultura, che non si era ancora trovata a competere, in posizione di inferiorità, con la televisione e i suoi modelli".

Delle motivazioni più intime e profonde del saggio carducciano si alimenta anche la seconda parte, per così dire, del volume, che antologizza cinque brani in prosa collegati dal tema del viaggio, che "mette in relazione il protagonista con il mondo della provincia e dei suoi abitanti".

Non vi è certo bisogno di insistere sul peso che questo tema, talvolta ‘contaminato’ dai generi limitrofi dell’epistolografia, della memorialistica (o altro ancora), ha assunto nella letteratura e nella cultura contemporanea, in cui sempre più e sempre meglio si è capito come l’esperienza ‘fisica’ del viaggio fatalmente trapassi nell’esperienza ‘mentale’, connotandosi per la sua ricca valenza metaforica, ma corroborando anche, nella sua concretezza, l’esigenza di sottrarsi a quell’ideale di "disinteressa e disincarnata" letterarietà che ha costituito per molto tempo il tratto distintivo e inconfondibile dell’attività inventiva e fantastica dei nostri letterati.

Tutti i brani sono ‘preparati’ da ricche e documentate introduzioni che illustrano il contesto in cui si collocano, come nel caso del Viaggio elettorale, intrecciato di pubblico e di privato, di De Sanctis, sulle cui vicende elettorali Giuliani non manca di avanzare alcune equilibrate riserve, che si estendono sommessamente anche al livello letterario, analizzato con una pregevole sensibilità stilistica.

Nell’alterna vicenda di incontri e di distacchi, di partenze e di rientri che è la vita, come il viaggio, si colloca il ‘ritrovamento’ di Mario Carli, un significativo rappresentante del futurismo, la cui ricerca del tempo perduto, al di là degli interessanti risvolti informativi sulle potenzialità dell’agricoltura pugliese, esaltate dal varo dell’Acquedotto pugliese, è inquinata dalla celebrazione retorica del regime ingannevole nel quale l’autore crede di riconoscere quell’avanguardia dell’ideale che è alla base del suo "attivismo sfrenato e senza risparmio".

Assolutamente inedito è, anche, come il resoconto del Carli, anche il racconto (Le inseparabili) di Umberto Fraccacreta, della cui identità culturale Giuliani, con accortezza filologica, mette a posto parecchi tasselli, giovandosi degli apporti che gli vengono dalla scrupolosa ricognizione del Fondo omonimo, non irrilevante ai fini della comprensione della formazione culturale del poeta e, più in generale, dei ceti colti di quegli anni, delle loro simpatie e delle loro antipatie.

Non è senza ragione, dunque, il rilievo che lo studioso attribuisce alle ‘assenze’ e alle ‘presenze’ che registra nella biblioteca di famiglia del ‘poeta del Tavoliere’: e qui sia sufficiente far riferimento al numero cospicuo di antologie scolastiche che vi compaiono, e che, nella scelta stessa dei suoi versi, si atteggiano a riflettere documentariamente e oggettivamente le emergenze attuali, come il ritorno alla campagna e ai valori del mondo agricolo, omogenei, appunto, al sentimento bucolico e moralistico, da "nuova Arcadia", che attraversa largamente la cultura di quegli anni. Significativa, in qualche modo, è anche la presenza delle guide turistiche che attesta, forse, la volontà di alcuni intellettuali di sottrarsi alla cappa provinciale per evadere, non solo mentalmente, verso plaghe più aeree e consonanti, anche se talora, come nel caso di Vittorio Marchese, il rimpianto della propria terra persiste come culto dell’incanto vergine e malinconico delle proprie radici remote, come identificazione di un territorio mitico capace di proiettare e dilatare simbolicamente le proprie radici personali, ma capace anche di acuire il senso di estraneità che si accompagna al tentativo di riappropriarsi di un passato irrecuperabile, di sanare la ferita di un distacco risarcibile solo attraverso l’immersione nella dimensione metafisica, unico antidoto alla sterile consumazione del tempo.

Allo sguardo ‘interno’ del letterato sanseverino si oppone, con eloquente capovolgimento della situazione psicologica e del procedimento narrativo, lo sguardo ‘straniero’ di Emanuele Italia, di Camerino, in cui pure l’occhio del viaggiatore si configura come lo strumento della resa metaforica di un percorso esistenziale inquieto e lacerato, e, insieme, della più complessiva crisi dell’uomo moderno, vittima di una solitudine storica che è acuita, nel caso di questo scrittore, dal rapporto difficile con la cittadina che lo ospita, assunta ad emblema di un mondo chiuso nella quiete immobile di una civiltà indolente, in quel "sonno della notte del Sud", di bodiniana memoria, che, se, in qualche caso, può costituire lo spazio dell’evasione liberatrice, altre volte rischia di segnare, come è stato detto, "la fatale condanna di una terra piana e senza sussulti, quasi il corrispettivo della piattezza assoluta di un suolo senza slanci e senza abissi".

Di qui il compito specifico degli uomini di cultura, che, come Francesco Giuliani, capendo e orientando attraverso la consapevolezza della rilevanza dei fattori storici della nostra tradizione, e introducendo elementi di fertile provocazione intellettuale, ci aiutano, con la lettura critica del passato, con il loro ‘viaggio’ di scoperta, o riscoperta del nostro territorio, a fondare legittimamente il progetto del nostro futuro.

DOMENICO COFANO

Università di Foggia

 

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