1995-2005

A DIECI ANNI DALLA SCOMPARSA DI NINO CASIGLIO

 

 

IL SILENZIO ED IL VALORE

Dieci anni fa, per la precisione il 16 novembre 1995, si spegneva lo scrittore Nino Casiglio, a 74 anni. Gli anniversari sono sempre utili, a nostro parere, perché offrono l’occasione per delle riletture talvolta approfondite, nelle quali si fanno i conti con i più generali cambiamenti della società e del gusto.

La nostra epoca viaggia a velocità supersonica e noi spesso ce ne accorgiamo solo quando troviamo dei punti fermi di riferimento, come appunto gli scomparsi. In generale, il periodo immediatamente successivo alla morte rappresenta per la notorietà di uno scrittore il momento più delicato. Ad un inevitabile calo di attenzione deve poi seguire una fase di riscoperta; in caso contrario, uno spesso strato di polvere si depositerà per sempre sui libri e sul nome del personaggio in questione.

         Nel caso di Nino Casiglio, è evidente che il decennio trascorso ha lasciato il segno, anche perché in fondo il suo silenzio narrativo durava già da alcuni anni, risalendo, per quanto riguarda i romanzi, al 1983, anno di apparizione de “La dama forestiera”. Abbiamo letto di recente alcuni libri di letteratura pugliese nei quali ci ha colpito proprio la scarsa o nulla attenzione riservata a Casiglio. Un segnale che se per certi versi si spiega con la tendenza generale appena evidenziata, per altri versi deve spingere a intensificare gli sforzi perché a Casiglio sia assegnato un posto stabile nell’articolato e complesso quadro del Novecento.

         La strada è sempre quella di studiare i suoi libri e diffondere la loro conoscenza, con giornate di studi, pubblicazione di atti, borse di studio per tesi di laurea, letture pubbliche riservate alle scuole.

Uno studente della nostra città per forza di cose non ha conosciuto Casiglio da vivo, né tanto meno ha letto i suoi libri. Parlare dell’uomo e della sua produzione, dunque, è già un primo segnale di attenzione, ed è proprio quanto ci accingiamo a fare.

 

 

LA VITTORIA DI GAETANO SPECCHIA

Si potrebbe iniziare la storia dal 1972, quando la Vallecchi di Firenze pubblica “Il conservatore”, il primo romanzo dello scrittore, composto qualche anno prima. Era la sua confessione di uomo, il suo messaggio ideale affidato alla narrativa. Nei panni del protagonista, Gaetano Specchia, c’era un intellettuale nato nella nostra terra, per quanto mai nominata, il quale si chiedeva come fosse possibile fare realmente del bene, aiutare il prossimo, al di là delle parole e dei condizionamenti ideologici.

Quelli che vogliono dare una lettura ideologica di Casiglio fanno un pessimo servizio allo scrittore, dal momento che al fondo della sua produzione c’è una attualissima sfiducia nella capacità delle ideologie di modificare il mondo. Alla fin fine, gli uomini, in un contesto negativo, in una realtà piena di difetti e di carenze, non hanno che la loro testimonianza concreta per affermare il bene. L’economista Specchia sceglie questa strada, pur sapendo quanto sia difficile, e vi resta fedele fino alla fine.

“Il conservatore” è la storia di un uomo serio, onesto, inquadrata sullo sfondo di un Meridione nel quale la scena resta sempre saldamente nelle mani dei furbi. E’ un’opera con una lezione amara, s’intende, ma con degli sprazzi incantevoli, densi di una sottile e penetrante malinconia.

Specchia perde per gli altri, i furbi, i voltagabbana, gli ipocriti, ma vince la vittoria della coerenza.

Casiglio possedeva, tra le altre, una dote rara, allora come oggi: quella di scrivere solo per intimo bisogno. La stragrande maggioranza degli autori di oggi deve pubblicare un libro all’anno o comunque in un breve lasso di tempo, per tenere sempre la scena. Di qui le tante opere inutili, ripetitive, insincere, fatte solo per guadagnare denaro o uno spicchio di transitoria notorietà. Casiglio sapeva opporsi a questo andazzo, ben sapendo che Manzoni ha scritto in fondo un solo libro, in una vita lunghissima, che le poesie di Leopardi occupano poche decine di pagine. Insomma, non conta quanto, ma come si scrive, e di questo a parole sono tutti consapevoli, ma molti scrittori stanno poi allegramente al gioco, ripetendosi a cadenza fissa, costi quel che costi, magari infarcendo le pagine di parolacce e termini gergali, che piacciono tanto ai lettori più tiepidi e ai giovani.

 

DAL 1977 AL 1983

Casiglio aveva pensato di fermarsi al suo primo romanzo, ritenendo di aver detto tutto quello che aveva in animo di comunicare. Poi, in verità, nasceranno altri tre libri, ma solo per rispondere ad un’intima sollecitazione, e comunque a distanza di alcuni anni l’uno dall’altro.

Nel 1977 è la volta di “Acqua e sale”, che segnò il vertice del suo successo, con il Premio Napoli. Lo scrittore aveva offerto ai suoi lettori un romanzo che ad un livello superficiale era facilmente comprensibile. Era la storia di Donato Marzotta, contadino del Sud alle prese con una realtà dominata dalla miseria e dall’ingiustizia. Egli si batte per un mondo migliore, conoscendo anche l’esilio alle isole Tremiti, durante il Ventennio, ma nel dopoguerra si trova costretto amaramente a confessare che è cambiato quel che doveva restare, mentre è rimasto quel che doveva cambiare. Il mutamento, insomma, non ha prodotto una società più giusta, né più colta, malgrado l’apparenza. Nel Meridione, in particolare, l’unica risposta è stata l’emigrazione, che ha eliminato il surplus di manodopera, senza però realizzare un vero sviluppo dell’agricoltura. Alla fine, insomma, il bilancio del protagonista è amaro, come la sua morte, nelle pagine d’epilogo.

Il successo del romanzo è dovuto, dunque, ad una maggiore facilità di approccio e ad una scrittura più semplice, che lascia sullo sfondo, incompresa, una parte cospicua della tesi di fondo.

Nel 1980 è la volta de “La strada francesca”, un tuffo nel Seicento del Sud, un’opera filosofico-picaresca di non facile lettura. Al fondo, Casiglio pone l’idea di mutamento, sottolinea come le cose cambino con diversa velocità, lasciando in piedi realtà ed istituzioni seicentesche che in apparenza sembrano scomparse da tempo. Il mutamento, inoltre, oltre che privo di uniformità, non è necessariamente rivolto al bene, al meglio, con buona pace dello storicismo.

Il protagonista del romanzo, un innominato picaro, segue nel suo cammino attraverso l’Italia centro-meridionale lo zio Alano, costretto alla fuga per evitare problemi con l’inquisizione. E’ un viaggio denso di sorprese e di eventi, in un Seicento che per molti versi è vicino al Novecento. Alla fine, la lezione batte sull’importanza dei buoni, di coloro che fanno con onestà il loro dovere, che esistono, anche se non fanno rumore. Senza di loro il mondo sarebbe peggiore di quello che è.

“La strada francesca” è un romanzo difficile, che sconcertò i lettori attratti dall’apparente facilità di “Acqua e sale”, anche se al fondo si riallaccia alle tematiche già espresse nei romanzi precedenti. Ma le citazioni, le discussioni filosofiche, i passaggi ardui, un ritmo talvolta troppo lento, presuppongono un lettore impegnato e non in cerca di evasione. Non è, insomma, il libro da leggere prima di addormentarsi. Dicono che all’epoca piacque tantissimo ad Umberto Eco, anche se non abbiamo mai trovato alcun documento a tal proposito. Di certo, “La strada francesca” appare poco prima de “Il nome della rosa, nello stesso 1980, dunque non ci sono influssi diretti nella fase realizzativa, né da una parte né dall’altra.

Più accessibile è senza dubbio “La dama forestiera”, del 1983, in cui viene ricostruita, con la libertà consentita ad un narratore, la storia del lascito dell’ultimo principe di San Severo, Michele di Sangro, che affidò alla sua compagna, Elisa Croghan (Craig, nell’opera), il compito di realizzare l’arduo obiettivo di promuovere lo sviluppo dell’agricoltura nella nostra realtà. E’ un romanzo gradevole e delicato, che pone l’accento sul tema del possesso della terra, sul desiderio che ha guidato gli sforzi dei nostri avi, per poi essere sostituito dal mito della fabbrica e del benessere al Nord. Anche in questo caso, la lezione che si ricava è amara.

Il romanzo possiede, inoltre, una sua vena malinconica, un senso della fine che lo scrittore prestava ai personaggi, ed in particolare al principe di Sangro. Alcune pagine, poi, presentano delle incantevoli descrizioni della nostra terra.

 

QUANDO UNA SCUOLA AL SUO NOME?

Si tratta di quattro romanzi, come si vede, diversi e insieme legati dalla stessa visione del mondo, che hanno segnato il cammino artistico di Casiglio. Dovendone scegliere uno, continueremmo a preferire il primo, “Il conservatore”, per la sua profondità, per la sua capacità di rappresentare la vita di un uomo immerso nel suo ambiente, per la lezione profonda e dolente che si ricava dalle pagine, per la cura umanistica dello stile e della lingua. Ma tutte le opere presentano dei momenti significativi.

Il tempo non ha tolto nulla al fascino di questi romanzi, ai quali dovremmo aggiungere anche i racconti, sia quelli uniti in volume ne “La chiave smarrita”, apparso nel 1987, sia quelli rimasti estravaganti e fatti conoscere in seguito dallo scrivente.

Ne deriva il ritratto a tutto tondo di uno scrittore di valore, che ha anche dato molto alla nostra collettività, come docente, come preside e come intellettuale, sempre pronto a partecipare a conferenze, sempre sollecito a sostenere l’impegno dei suoi concittadini.

Non possiamo chiudere questo articolo senza esprimere un auspicio. Ci auguriamo che questo decimo anniversario possa sensibilizzare il mondo politico, scolastico ed intellettuale della città sulla necessità di dedicare una scuola alla memoria di Nino Casiglio.

Egli fu un uomo di scuola, ma non c’è attualmente un istituto a lui intestato. La soluzione, se si vuole, si può trovare, senza danneggiare altri benemeriti intestatari di istituti della nostra città. E’ un invito, il nostro, che si spera possa essere raccolto al più presto, con il contributo fattivo di tutti i cittadini.

 

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