ANNIVERSARI

LA RETORICA E GLI INGANNI DELL'UNITA' D'ITALIA

 

Si parla già molto dei festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, che cadrà l’anno prossimo, nel 2011. Fervono i preparativi, ma anche le polemiche non sono da meno, sia a Nord che a Sud. Le polemiche leghiste si intrecciano con le rivendicazioni dei meridionali. E’ evidentemente un segno dei tempi, che deve far pensare in modo serio.

Quando si parla di memoria condivisa si pensa subito alla seconda guerra mondiale e agli anni dal 1943 al 1945, segnati da una guerra civile, dal crollo del fascismo, dalla resistenza, dalla crisi fatale della monarchia, dalle tensioni tra le ideologie e i partiti. Una vera pacificazione, si ripete, non c’è stata,e molti conti con il passato sono rimasti sospesi. Ma il discorso vale anche per la nascita dell’Italia, per le fasi che hanno portato al coronamento di un’antica aspirazione, cara a scrittori ed artisti.

La retorica del Risorgimento ha nascosto a lungo le tante pagine oscure e disdicevoli che hanno preceduto la storica dichiarazione del 1861, ma ormai la verità si sta facendo strada non solo tra i cultori di storia e gli appassionati lettori, che sono pur sempre una minoranza in Italia, ma anche presso il cittadino di media istruzione. L’unità d’Italia è stato il risultato, per quanto riguarda il Meridione, di una guerra di conquista che ha portato con sé una guerra civile, tante furbizie e tanti atteggiamenti opportunistici. E con questo passato non abbiamo ancora fatto i conti.

Ci avevano detto che il Sud era la parte arretrata e debole della futura nazione, che tanti meridionali erano in attesa dei piemontesi, che la prima ferrovia italiana era nata come un giocattolino dei Borboni, isolando gli storici e gli intellettuali che avevano osato scrivere il contrario già nel recente passato. Si pensi, ad esempio, alle opere di Carlo Alianello, ma anche al volume “Primati del Regno di Napoli”, del pugliese Michele Vocino, che alla fine degli anni Cinquanta aveva ricordato i risultati raggiunti nell’ambito industriale, dalla produzione della carta a quella delle porcellane. Un capitolo di questo testo, intitolato “La Repubblica socialista di S. Leucio”, spiega, con dovizia di richiami alle norme e agli statuti, come funzionava questa comunità posta sopra un’altura, nei pressi di Caserta, che sembra la realizzazione di certe utopie, e per giunta in grande anticipo sui tempi. Eppure si era in piena epoca borbonica!

Gli esempi potrebbero continuare a lungo. Un Meridione in parte industrializzato desta sicuramente meraviglia e lo stupore si trasforma in rabbia pensando che queste realtà sono state ben presto cancellate dal mercato, all’indomani dell’Unità. Anzi, sono state a lungo cancellate persino dalla memoria collettiva, per riemergere solo di recente.

I conti con la memoria, dunque, vanno ancora fatti fino in fondo. E il discorso non è solo storico, riducendosi, magari, ad una disputa tra accademici. Il problema investe la vita quotidiana di tutti noi, e il motivo è presto detto: solo rivalutando i pregi del passato potremo finalmente riacquistare l’orgoglio dell’appartenenza.

Siamo sempre stati abituati a pensare che l’erba del vicino fosse più verde, trascurando la bellezza dei nostri monumenti, delle nostre risorse, dei nostri prodotti agricoli. L’aggettivo “borbonico” è ancora usato in termini spregiativi; ma i Borboni erano i nostri legittimi sovrani e non erano peggiori di tanti altri. Anzi, Ferdinando II era un personaggio di spicco, che stava guidando il Regno in una fase di progresso. Non era un paradiso terrestre, ma neanche l’inferno dipinto da tanti storici interessati, il mondo dimenticato da Dio e dal progresso. Purtroppo, per tragica ironia, molti intellettuali meridionali, Benedetto Croce in primis, hanno puntellato questa visione di comodo, rafforzando l’idea di un chiaroscuro, di una fase negativa sostituta da una positiva. L’ultimo sovrano borbonico, Francesco II, è rimasto per tutti Franceschiello, un re da operetta; ma dietro lui, con la sua inesperienza, si è svolta comunque una farsa segnata da tradimenti, da calcoli egoistici, da logiche gattopardesche. E’ cambiato tutto per non cambiare niente; Garibaldi è finito a Caprera, i Savoia hanno esteso l’ordinamento piemontese al Sud, rassicurando le classi dominanti.

E per giustificare il tutto, ecco la retorica risorgimentale e il chiaroscuro appena ricordato. Il Sud era solo oscurantismo e miseria; i briganti erano delinquenti; i plebisciti che hanno sancito l’annessione al Piemonte erano atti di vera democrazia. E si potrebbe continuare a lungo.

Riappropriarsi di questo nostro passato, ricco di luci ed ombre, come quello di tante altre regioni, significa ritrovare un orgoglio e un sano atteggiamento di amore per la nostra terra che ancora manca in molti cittadini. Significa accettare quanto avvenuto nel 1861, senza sterili nostalgie preunitarie, ma porre sul tavolo della discussione anche altre verità scomode, contestando certe ricostruzioni che ancora compaiono sui libri scolastici. L’impostura della storia scritta dai vincitori non ha giovato a nessuno, né a chi ha vinto né a chi ha perso. Riscoprire le ragioni dello stare insieme significa parlare chiaro una volta per tutte.

Questo anniversario finisce per cadere al momento giusto. E’ il caso di dire che ne vedremo e ne sentiremo delle belle.

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