RILEGGENDO BACCHELLI E "IL BRIGANTE DI TACCA DEL LUPO"        

 

           Nella pagina a parte pubblichiamo due episodi appartenenti all’ampio racconto Il brigante di Tacca del Lupo di Riccardo Bacchelli (1891-1985), l’autore de Il mulino del Po, che ha dedicato alcuni pregevoli brani al Gargano.

           Il titolo originario del racconto è Campagna contro i briganti e appare sulla rivista “L’Illustrazione Italiana”, nel 1936. L’edizione definitiva è del 1958 e non presenta stravolgimenti di particolare rilievo. L’azione è incentrata sull’ultima fase del brigantaggio, tra 1863 e 1864. La provincia di Foggia, al pari di altre zone meridionali, era stata teatro di tragici e cruenti scontri tra soldati e briganti, estesi dalle parti pianeggianti a quelle montuose.

          I protagonisti del racconto sono di fantasia, ma perfettamente verosimili. In esso lo scrittore si ispira ad una delle tante cacce al brigante che segnano il periodo, complicate da un territorio nel quale i ribelli si muovevano a proprio agio, mentre i soldati italiani erano costretti a confrontarsi con luoghi impervi e sconosciuti, circondati da diffidenza o aperta ostilità.

          Al termine di queste operazioni belliche, che avevano richiesto un ingente schieramento di truppe regolari, erano caduti o erano stati resi inoffensivi, uno dopo l’altro, i vari capi, ponendo termine agli scontri.

          Storie di ordinaria crudeltà, dunque, riproposte sullo sfondo di un Gargano vivo e concreto. Il capitano Sgaralli, l’uomo della legge, viene rappresentato proprio come uno di questi instancabili braccatori di briganti, equilibrato, fornito di un saldo senso del dovere e di grande onestà interiore. Il suo nemico è il brigante Raffa-raffa, ladro, violento e volgare, come del resto lascia intendere il soprannome. Il suo più grande errore sarà l’aver rapito una bella peschiciana, Zitamaria, moglie del carbonaio Scianguglia.

           Raffa-raffa la violenta, venendo meno ad ogni principio e rispetto, e il carbonaio guiderà il capitano Sgaralli fino all’interno del Gargano, alla Tacca del lupo (di qui il titolo), dove avviene uno scontro breve ma violentissimo. Sarà proprio il carbonaio ad uccidere, in un duello all’ultimo sangue, il brigante. L’epilogo vede la fucilazione anche dei briganti superstiti e le amare riflessioni del capitano Sgaralli, di fronte ad una realtà meridionale nella quale non è facile orientarsi.

          Il Meridione attende giustizia, nota qua e là Bacchelli, ma le attese sono in gran parte deluse e trionfano i trasformisti come don Filippo Siceli, simbolo di una classe dirigente locale attenta soprattutto a servirsi del potere per coltivare le proprie ambizioni e i propri interessi.

         Egli, così, già spia e uomo della polizia borbonica, riesce a farsi nominare responsabile della polizia, facendosi crescere “una gran barba garibaldina e da Carbonaro, educata a pizzo sabaudo colla presa di Gaeta”.

          Il primo episodio estrapolato riferisce del feroce scontro tra i soldati italiani e i briganti, tra i quali c’è anche un capitano Silvestre, che si immagina abbia fatto parte dell’esercito di Josè Borjes, l’idealista alfiere della controrivoluzione, fucilato a Tagliacozzo, a pochi passi dal confine dello Stato Pontificio. Il culmine della scena è rappresentato dal duello tra il marito offeso e il brigante senza regole.
         L’altro episodio ricostruisce le vicende che vedono come sfortunata protagonista la bella peschiciana Zitamaria, uno dei personaggi letterariamente meglio riusciti del racconto. Il marito carbonaio non vorrebbe riprenderla, pur avendo vendicato con il sangue l’offesa subita, ma alla fine, ascoltato anche il parere del capitano Sgaralli, che pone l’accento sull’assoluta innocenza della donna, l’amore finisce per trionfare. I due fanno pace e, complice l’ombra del bosco, si allontanano, in cerca di un po’ d’intimità. Un episodio a lieto fine, nell’ambito di un racconto ricco di note amare e di constatazioni realistiche e ancor oggi condivisibili.

         La pagina del brigantaggio è stata violenta e la ferita non si è mai rimarginata del tutto, specie pensando a quello che doveva accadere negli anni successivi. Storie note e ricordate da più parti, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.

         Quello che colpisce sempre nelle pagine di Bacchelli è la capacità di orientarsi nei luoghi della nostra Capitanata, facendoli diventare il teatro perfetto di scritti che meriterebbero di sicuro una maggiore fortuna. Chi volesse approfondire il tema, può leggersi le pagine relative del nostro volume Occasioni letterarie pugliesi, del 2004. Può essere la base di partenza per una scoperta letteraria avvincente.

 

da IL BRIGANTE DI TACCA DEL LUPO

LO SCONTRO CON I BRIGANTI           

           

          Ritto in piedi col trombettiere dietro, davanti alla catena dei suoi uomini, il capitano Sgaralli pensava di procedere senz’altro, e ripeteva di non far fuoco senza comando, allorché tuonò la salva convenuta, e apparve il fumo della scarica sul ciglione.

          I briganti tacevano, dimostrando una insolita disciplina. Lo sparo aveva suscitato nella linea un sussulto smanioso, e Sgaralli sentiva gli occhi fissi sopra di sè. Fece avanzare lentamente di cinquanta passi, e una palla gli fischiò all'orecchio.

           - Hanno anche qualche buona carabina, - pensò.

           Dal loro riparo, i briganti aprirono un fuoco disordinato e inutile, a cui i bersaglieri non risposero. Poi il fuoco cessò, lasciando fumo denso, immobile. Il sole era alto e scottava.

           - Lasciamo che sciupino munizioni, - disse il capitano ordinando ai suoi uomini di sten­dersi a terra sul prato.

          In quel momento pareva di sognare, e che i fatti proseguissero un loro corso senza volontà degli uomini; ma da uno scoglio isolato sulla destra di Sgaralli, scoppiò secco e preciso un colpo di fucile. Rispose dal valloncello un urlio, e poi alcuni colpi. Posatamente, con calma, colpo per colpo, spaziato, e si sentiva che ogni volta prendeva mira, quel tiratore dallo scoglio spa­rava sui briganti che gli stavano sotto, e che certo egli scorgeva bene.

          - È il carbonaio, - pensò il capitano.

           Ora i bersaglieri tormentavano il grilletto, e penavano a star sulle mosse, che ogni tanto una palla fischiava vicina. D'un tratto furon tutti in piedi.

           Una torma compatta usciva urlando dal ri­covero, e veniva di corsa. Sgaralli levò la sciabola, li attese. A metà della corsa, quelli si fermarono per scaricare i fucili. Caddero due feriti. Sgaralli abbassò la sciabola, diede un or­dine, e la tromba suonò le note aspre, brevi incitanti, dell'attaccò. I briganti, che erano armati di fucili e baionette rubati alle truppe, e di picche e coltelli, non fuggirono, anzi attaccarono a lor volta, guidati, trascinati da uno, che precedeva in testa. L'urto fu breve, ma forte, la mischia feroce, senza un grido nè uno sparo.

          Sgaralli s'era visto sorgere davanti colui che comandava i briganti, armato di sciabola, animosissimo. Aveva appena fatto in tempo a parare un fendente e a rispondere. Travolti dai bersaglieri alla baionetta, i briganti superstiti, caduto quel loro capo, si rintanavano lestissimi. Sgaralli fermò la sua compagnia per evitare perdite inutili. A metà prato, il groviglio dei morti e dei feriti diceva com'era stata stretta la mischia.

          Ora i briganti, alla spicciolata, tentavano la fuga per le roccie, ma gli appostati sul ciglione e Carmine dal suo scoglio li abbattevano ad uno ad uno. Colpiti, cadevano, ruzzolavano di roccia in roccia, con urla disperate e feroci.

           Una pattuglia raccolse la dozzina di bersaglieri feriti, e li portò al Sicèli. Dal fondo del valloncello uscirono, gridando che s'arrendevano, i briganti. Buttavano le armi, alzavano le mani in aria, qualcuno s'inginocchiava. Furono messi in branco tra fucili puntati. Il sole pic­chiava forte, i feriti gemevano, nell'aria ferma stagnava greve e nauseabondo il fetore umano della lotta e della carneficina.

          Ma sulla rupe apparve lo Scianguglia, e prese a chiamare Raffa-raffa con voce acuta, ingiuriosa. Certo aggiungeva ingiurie sanguinose nel suo dialetto, ma bastava la voce, in cui si sentiva l'odio e lo scherno, da raccapricciare, tanto che ognuno intese gli occhi e gli orecchi alla cima dello scoglio. E un uomo aitante, barbuto, in cui ognuno riconobbe il capobrigante rimasto fin allora nascosto, uscì dal fondo del valloncello e aggredì la roccia, salendo coll'agilità di una scimmia verso lo Scianguglia. Nessuno gli sparò. Si vide lo Scianguglia deporre il fucile e brandire un coltello, e lasciare che Raffa-raffa saltasse sulla cima, che offriva uno spazio aperto per quel duello alla vista di tutti.

          E tutti sapevano la forza e l'animo atroce del bandito; indovinavano il suo riso feroce, credevano di sentire il fiato di quei due accaniti, che stettero coi coltelli in pugno, faccia a faccia, aggirandosi lenti sul breve spazio, guatandosi.

           Raffa-raffa portò il primo colpo, ma il carbonaio lo schivò e rispose. Si udì il ruggito del brigante ferito, che si buttò a corpo perduto sullo Scianguglia. Questi vacillò, toccò terra colla mano libera, e mentre Raffa-raffa gli tornava addosso per finirlo e traboccarlo giù dallo scoglio, gli menò un calcio nello stinco, tale che l'avversario dovette ritirarsi di due passi con uno strido di rabbia e di dolore. Carmine balzò come un gatto; il coltello diede un lampo al sole, e mentre Raffa-raffa parava la finta al petto, pri­ma che potesse rimettersi in difesa, gli sparì nelle viscere.

           Si erse il gran corpo vigoroso, la mano lasciò sfuggire l'arma che trabalzò giù pei sassi, e con un raglio disumano Raffa-raffa arretrò di tre passi, girò su sè stesso, precipitò dallo scoglio, morto.

            Caduto anch'egli, ferito, Carmine Scianguglia s'era trascinato sull'orlo, a gridargli dietro con quella voce acuta d'odio frenetico, che ricordasse, che ricordasse, all'inferno, la moglie del carbonaio.

 

LA BELLA ZITAMARIA

         

         Ora un giorno, e già s'avvicinava la fine di quel breve riposo e il tempo di levar le tende dal Bosco Umbra, un giorno nell'ora della siesta, che tutti dormivano fuorché la sentinella del campo, arrivò a dorso di mulo una carovana, quasi tutta di donne.

          In breve, i bersaglieri furon tutti fuori, ed anche i fratelli di Carmine; lui no.

         Era la moglie dello Scianguglia, con fratelli, sorelle, amici, e tutto un parentado, venuti da Peschici, dove la donna s'era,ritirata mesi pri­ma; ed ecco, per chi voglia sapere il fatto, come era stato.

         Carmine Scianguglia, l'autunno innanzi, stava finendo di far consumare a lento fuoco le ultime carbonaie dell'annata nelle boscaglie del Jacotenente; e la moglie soleva venir su dalle capanne dell’Umbra per portargli da mangiare, con due cognati ragazzi. Anzi, quella volta era proprio una delle ultime, che stavano, come si dice, per scarbonare e insaccare. Raffa-raffa, che cercava rifugio da quelle parti, per quanto i carbonai non gli avessero negato di che sfamarsi quando era venuto alle loro capanne, tirato ora per i capelli dalla lussuria, aveva rapita la don­na. Lo Scianguglia s'era visti arrivare i due ra­gazzi spauriti, la colazione: e così aveva appreso il resto, senza una parola, senza toccar cibo due giorni durante. Il Raffa-raffa, dopo otto giorni che se l'era tenuta sulla Tacca del Lupo, a farle violenza, quando la sazietà, da vero maiale, e il malcontento dei suoi briganti, i quali sape­vano a che rischio li esponeva un fatto simile, gli apriron gli occhi, la rimandò. Ma le capanne eran vuote, solitarie, senza nessuno. La donna chiese ricovero ai fratelli nel paese natale di Peschici, dove Carmine era andato un giorno a farla sua carpendole il fazzoletto; ed era stata la più bella ragazza di quel paese di belle; e la faccenda non era andata liscia, ma poi la sposa s'era abituata alla montagna ed ai boschi. E se lei era benestante di riviera marina, Carmine, per carbonaio, era ricco. E insomma s'era innamorata dopo sposata, che è certo la miglior sorte di moglie e di marito. […]           Dapprima Carmine rispose ai fratelli che non intendeva di farsi vedere; che tutta quella gente gli facesse il piacere d'andarsene di dov'eran venuti: poi, dopo lunghe trattative, i suoi cognati entrarono nella capanna. Zitamaria fra le sorelle e le amiche, contegnosa, aspettava colle mani intrecciate sul busto, gli occhi a terra. Ma per poco che li muovesse, eran fulgenti di colore, e si scorgeva che avevan pianto molto. Bru­na, di ciglia folte, diritte ed unite le arcate dell'occhio sul naso aquilino, di guancie piene, di testa piccola e rotonda e ben fatta sotto il fazzoletto nero che la fasciava, era una vera bellezza; e la più italiana delle bocche, esattamente tagliata, fresca, aveva il labbro di sopra un tan­tino corto e rialzato, sicché il broncio lo rendeva un poco infantile, sull'inferiore tumido e carnoso, il quale adesso tremava. Il mento era piccoletto e tondo; i denti candidi splendevano.

           Il Coscritto, dicevano i bersaglieri che intanto avevano tutto il tempo di guardarla, aveva una bella moglie davvero.

           Lei era venuta disadorna e abbrunata, le ac­compagnatrici invece avevano indossato, per buon augurio, i festosi abiti coloriti, tutte le col­lane d'oro della dote, i maiuscoli orecchini di vecchia filigrana lavorata.

           Ma Carmine non cedeva, finché uno dei suoi fratelli non ebbe l'idea di chiedere al capitano Sgaralli di udire il caso e di dare un consiglio. A ciò annuì anche l'ostinato carbonaio; e quando Sgaralli ebbe sentito che né il marito né altri sospettava minimamente che la donna non avesse soggiaciuto per forza e renitente a una scellerata violenza, diede il consiglio della ragione e dell'umanità. […]

           E tutti ridevano, tutti lieti della pace; e tutti si fecero attorno agli sposi, che seri e composti, tenendosi per mano, ricevettero le liete congratulazioni di Sgaralli, del parentado e degli amici soldati.

           Da Peschici erano stati portati barili di vino, ceste di frutta e d'aranci dei magnifici aranceti costieri. E salsiccie secche, che in Gargano san fare saporitissime, e cacicavalli da mangiare rosolati al fuoco delicatamente.

           La caccia aveva fruttato ai bersaglieri due cinghiali e un capriolo, che furon messi ad arrostire con tre capretti dei carbonai. E tutti avevano fame grande, anche i feriti convalescenti.

           Lieto, fervido, lento, il pasto durò fino a sera, e la gente, scaldata dal vino, avrebbe voluto condurre alla capanna gli sposi, non senza auguri licenziosi. Ma si trovò che Carmine, approfittando della confusione festosa e della notte tiepida, se l'era portata nel bosco, dove sarebbe stato vano cercarli. Così aveva voluto l'amore, così un resto di tristezza e di vergogna per ciò che lei aveva patito.

            Sgaralli e i bersaglieri partirono, e quei di Peschici pure dalla parte loro, prima che i due sposi riapparissero alle capanne.

        RICCARDO BACCHELLI

 

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