UN LIBRO DEL 1907 DI ANTONIO BELTRAMELLI

L’INFERNO DEL TAVOLIERE DELLE PUGLIE

 

 

SOTTO IL SOLLEONE

Di recente abbiamo parlato di Antonio Beltramelli e del suo bellissimo lavoro “Il Gargano”, pubblicato nel 1907.

         Beltramelli, nato a Forlì nel 1879 e scomparso a Roma nel 1930, è stato ai suoi tempi uno degli scrittori più di successo e non a caso il suo nome rientra tra i membri dell’Accademia d’Italia voluta da Mussolini. Ha al suo attivo vari volumi, che spaziano dal romanzo al racconto, dalla letteratura per l’infanzia ai libri di viaggio.

In quest’ultimo ambito rientra il libro dedicato al Gargano, compreso in un’importante collana, “Italia Artistica”, edita dall’Istituto Editoriale di Arti grafiche di Bergamo, con la direzione di Corrado Ricci. Il volume, come del resto chiarisce inequivocabilmente il titolo, è incentrato sullo sperone della penisola, su una zona allora quasi del tutto sconosciuto agli stessi italiani; ma, prima di arrivare a destinazione, lo scrittore-giornalista dedica alcune pagine al Tavoliere, che possono benissimo rientrare in un’ideale antologia letteraria degli scritti sulla nostra pianura.

Beltramelli giunge nel Tavoliere nell’estate del 1905, in pieno solleone; alla stazione di Apricena lo attende una diligenza, scomoda e lentissima, sulla quale sale. Le pagine che seguono, sono proprio quelle iniziali.

La pianura sa di morte e di desolazione e in questo scenario infernale si aggirano dei poveri mietitori abruzzesi, dei poveri diavoli costretti ad un lavoro durissimo e malpagato. Uno di questi, ancora giovane, impazzisce per il caldo, e Beltramelli fissa sulla carta la terribile scena, che per gli altri viaggiatori pugliesi è consueta, tanto da non destare alcuna impressione, ma che per il Romagnolo è sconvolgente. A questo dolore si aggiunge quello della madre.

Il Tavoliere è una sorta di girone infernale, dove gli uomini che sfidano la natura pagano un duro prezzo.  

 

 

L’OSTILE TAVOLIERE

“I grani sono mietuti in gran parte; benché si aggirino ancora nella sterminata aridità del Tavoliere gruppi di mietitori, la grande opera è compiuta; sotto la violenza canicolare gli strami gialli, risecchiti, rigidi nella loro morte, pongono un bagliore uguale che dilaga da orizzonte a orizzonte accecando. Ogni senso si smarrisce in questa terra di desolazione affocata, maledetta dal sole; gli occhi socchiusi intravedono a pena un tragico incendio, a traverso al quale, a grandi distanze, passano creature dal viso quasi ebete. L'aria non è corsa da un alito di brezza; non si ode un suono; non un’ombra scorre sotto tutto questo sole; il lieve tremito di un’ombra che dia il momentaneo riposo.

Le tre brenne che trascinano faticosamente la corriera vanno travagliando per la interminabile via che arde. Il cielo è opaco, bianchiccio, opprimente; si stende, acceso da una strana incandescenza, a soffocare questa povera terra desolata.

Le lande, le nostre lande romagnole, sono ancora verdi di cespi di ginestre, di macchie di tamerici; il mare, col quale confinano, dona loro la dolcezza del suo respiro. Allorché il sole passa il segno del leone, nelle ore più calde del meriggio, v'è chi le scorre senza sentire la morte alle terga, senza sentire il sangue tumultuare al capo in uno spasimo di agonia; esse hanno, benché aride e immense, qualche dolcezza di refrigerio e non affocano e non uccidono. Il Tavoliere delle Puglie è, nella grande estate, un piano di morte. Su lo squallore degli strami, che pare attendano una scintilla per alimentare l’incendio formidabile di cui il sole li nutre, l'occhio non può reggere aperto; è il regno del fuoco e dell’arsura. La terra sitibonda sprigiona un alito caldo; sono buffi di fiamme che salgono dal grembo della terra riarsa che il fremito di un ruscello non anima, non alimenta, non allevia. Non uno specchio, benché minimo, d'acque: polvere, sole, aridità, altro non vede l'occhio. Tutt'al più alla domanda che sale alle labbra col desiderio veemente della sete, una mano stanca farà un cenno verso due punti dell’orizzonte, verso due punti lontani ed opposti dove è l’acqua e la febbre; da un lato Lesina, dall’altro lo stagno salso. Fra questi due punti, a quando a quando, piccolissimi argini e qualche ponte segnalano il luogo ove, ai tempi delle pioggie torrenziali, il Candelaro conduce al mare le sue acque torbide e putride. Ora, durante la stagione estiva, nel suo letto asciutto dorme la febbre.

Verso ovest, in fondo all'abbagliante luminosità, riposa la città canicolare: Foggia, la città che non conosce i lievi azzurri dell'ombra, che non sa il palpito primaverile, che mai fu recinta delle lievi ghirlande che aprile reca col suo sogno giocondo. Foggia, che è come una vestale in mezzo al suo fuoco; nido di stanchezza temprato ai più alti rigori invernali e alle grandi violenze estive, sorto come un'oasi desiderata, benché non benefica, nel cuore del Tavoliere, si vede a quando a quando come un punto più vivo nel sole, quasi più ardesse di ogni cosa intorno. Pochi alberi tisici sorgono qua e là sopra le sue case basse, simili a torri monche e il sole l'abbraccia, l’inonda, la stringe tutta nella sua raggiera di fuoco. Non so, mi pare, vedendola da lontano, ch'ella non debba aver voce, ch'ella debba essere rovente come una fucina, che tutto in lei debba giacere nellinconscio torpore della canicola. Riposa fra le stoppie in questa desolata immensità e rompe la ininterrotta gamma dei gialli ponendo nell'aria l’accecante bianchezza delle calci di cui gran parte delle sue case è rivestita. L’occhio se ne distoglie infastidito, offeso. Conviene avere i sensi temprati a questo enorme stridere di colori e di luci per resistere imperturbati.

Innanzi, sul fondo, simile ad un immenso velario leggermente azzurro, si eleva promontorio del Gargano. A levante, biancheggia sopra una cima dispoglia che scende a picco sul piano, un paesello che mi dicono essere Rignano, il belvedere delle Puglie. Di lassù si deve scoprire compiuta l’immensità di questi piani.

La corriera (forse non fu mai più ironico il termine per questa vecchia carcassa che tre buscalfane trascinano) procede fra nembi di polvere; ne siamo avvolti: fra l'afa e la polvere si respira a stento; la gola è irritata e inaridita. I miei compagni di viaggio: una vecchia donna e un prete, sonnecchiano: le grosse mani, sudice, abbandonate sul grembo; il capo sobbalzante ad ogni sobbalzo di questa scatola infernale che, ruzzolando, ci conduce chi sa verso quale nuovo martirio. Da tre ore si cammina e ne avremo per più del doppio prima di giungere a S. Marco in Lamis.

Non protesto; abbandonando la piccola stazione alla quale il diretto mi ha de­postato, sapevo già di andare a ritroso nei secoli e ciò dopo tutto non mi dispiaceva: i musei archeologici e i paesi abbandonati hanno sempre grandi attrattive per l'occhio dell’osservatore. Sobbarchiamoci adunque alla dura prova, tanto più che la gioia, la felicità, il bene non esistono se non per legge di contrasto”.

 

Tramonto sul Gargano (foto di Francesco Ferrante)

LA PAZZIA

“Dormire è proprio delle creature che mi siedono a lato, è qualità, discutibile forse, ma appartenente anche al postiglione, il quale ha abbandonato le redini (sono tre, una per cavallo, con economia tutta propria a questi paesi) e sonnecchia bellamente

al sole come una bestia soddisfatta; ma non è qualità mia in questo frangente: unico fra i quattro, veglio e mi difendo da uno sciame di mosche che vuole assaporare in me una vivanda rara.

         Il promontorio, che azzurreggia sempre più nei cieli bianchicci, non accenna ad avvicinarsi; andiamo con tale lentezza che si possono contare comodamente i ciottoli della strada.

         Guardo, su la mia destra, un gruppo di mietitori che ha abbandonato il lavoro e si affanna, si scompone, grida non so bene ancora per quale causa. Le spigolatrici (sono vestite di bianco in gran parte ed hanno piccole gonne corte e una pezzuola annodata con certa grazia su la nuca) si avvicinano correndo: una ne vedo che si porta le mani al volto e si dibatte; le compagne le sono attorno, l'accerchiano, la rattengono. Il tumulto delle voci si avvicina. Vedo distaccarsi dal gruppo due uomini, vengono verso la strada trascinando fra loro un giovane che grida, si contorce, tenta sfuggire alla loro stretta. Poco dopo apprendo che è improvvisamente impazzito sotto la violenza solare. L'ho innanzi agli occhi ancora, più non potrò dimenticarlo: è giovane, ha ventun anni appena; è esile come un giunco e bello. Ha i capelli irti come in uno spasimo di tutto il corpo, gli occhi sbarrati innanzi a sé, attratti da non so quale visione di orrore; tutto il volto congestionato, immobile in una contrazione di angoscia; grida a denti stretti, grida reiteratamente, fra pause uguali, non so quali pa­role che non intendo; pare lanci una maledizione terribile a quel suo Dio che l'ha fatto umile e schiavo: pare bestemmi sua madre e la terra. Si divincola guizzando fra la poderosa stretta dei compagni che lo conducono a pena: ora rattrappito a terra, ora balzando in un irrigidimento di tutta la persona. Lo seguo con penosa attenzione finché la polvere lo vela.

Solo il reverendo si è sporto un attimo a guardare; ad una mia domanda risponde con un suo eloquio semi-pugliese di intesa difficile:

- Sono abruzzesi; scendono quaggiù per mietere; è affare comune!

Pare un principotto offeso. Lo guardo meravigliando.

Più innanzi mi indica una donna che viene verso noi e piange forte.

Chilla crisciu sia la soa mamma dice — poi si arrovescia su una parvenza di guanciale, ripone le sucide mani sul grembo e riprende sonno.

Che sia affare comune me ne persuado perchè ho occasione di imbattermi in altri disgraziati che la violenza del sole ha tolto di senno.

Questa maledetta aridità di morte vuole perennemente le sue vittime”.

    

         Il dramma si è compiuto, in un Tavoliere senza vita, in attesa del progresso, dei risvolti positivi della modernità. Agli inizi del Novecento c’era ancora da attendere e tutto sembrava statico; poi, gli eventi si accavalleranno, in modo frenetico, fino a giungere ai nostri giorni.

 

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