Un imperatore a San Severo

L’itinerario di Carlo V tra mito e politica

 

      1. Premessa, ovvero questioni di metodo 

 

            Chiunque abbia avuto l’occasione di esaminare con spirito critico gli scritti della storiografia municipale, fiorente in molte città (comprese le più piccole o le meno note) tra Settecento ed Ottocento, si è spesso imbattuto in episodi o tradizioni di malsicura credibilità. Anche per alcuni casi che possono essere considerati in via ipotetica come plausibili, il sospetto (almeno di eventuali manipolazioni e forzature) si alimenta  per la mancanza o la scarsità di dati certi. In situazioni del genere, si assiste quasi sempre alla formazione di una serie concatenata di citazioni, trasmesse da un autore all’altro, senza che nessuno si prenda la briga di risalire alle fonti, delle quali invece occorre in primo luogo accertare la consistenza e la validità. Solo su queste basi si può successivamente procedere ad una reinterpretazione della tradizione, allo scopo precipuo di valutarne le origini e le motivazioni.

             E’ buona norma infatti (come credo) far tesoro anche delle eventuali falsificazioni e/o alterazioni, se si riesce a spiegarne la genesi e le finalità. Può accadere talvolta che le spiegazioni restino solo delle ipotesi, perché non è sempre facile ricostruire (magari a distanza di secoli) i percorsi mentali degli eventuali falsari o le cause di certi errori. Di sicuro, una buona ed intramontabile norma di metodologia storica invita gli addetti ai lavori ad esaminare con filologica precisione tutti i termini del problema ; circa le spiegazioni invece, è lecito avanzare delle ipotesi, presentate onestamente come tali e tenute separate dall’accertamento critico dei dati esistenti. Tutto ciò distingue il lavoro scientifico da ogni altro tipo di rielaborazione, che può qualificarsi come romanzesca, poetica, propagandistica, politica e così via. Ogni cosa può essere accettata, ma deve essere giudicata per quello che è.

            Per quanto riguarda la questione richiamata nel titolo di questo saggio, mi è sembrato opportuno ripercorrere innanzitutto gli elementi offerti dalla storiografia locale ; successivamente si dovrà passare ad una rilettura del quadro generale, al cui interno l’episodio specifico (di qualsiasi natura esso sia) trova una sua plausibile collocazione e spiegazione. Un percorso metodologico di tal genere non è da considerare, come eventualmente potrebbe pensare qualche superficiale appassionato di storia locale, un inciampo per la sua fruizione o una manifestazione di scarso rispetto verso le tradizioni più o meno accreditate. Al contrario, l’impegno critico nella ricerca evidenzia sempre un interesse autentico per la riscoperta ed il recupero delle proprie radici, al di là di quanto le stratificazioni della storiografia ( passata, presente e futura ) possono più o meno consapevolmente contribuire ad alterare nella loro genuina formulazione.

            Il rischio della accettazione passiva dei dati trasmessi appare d’altro canto presente con maggiore virulenza proprio ai nostri giorni, caratterizzati da una accentuata tendenza alla spettacolarizzazione. Le vicende della storia sono spesso utilizzate, anche in perfetta buona fede, non per quello che effettivamente tramandano o che sembrano tramandare, ma quale canovaccio da cui estrarre a piacimento sceneggiature per una platea di spettatori avidi di emozioni forti. Vige insomma una sorta di consumismo culturale, che contrabbanda la vera cultura (connotata da itinerari pazienti e talvolta difficili) sotto le vesti piacevoli dell’approssimazione e della spettacolarizzazione. Insomma, nessuno osa più dire alle giovani generazioni, innanzitutto nella scuola, che le vere acquisizioni, quelle che fanno crescere gli individui e le comunità, richiedono sempre impegno e fatica. Piaccia o non piaccia.

            Ovviamente sarebbe eccessivo e fuorviante escludere dagli orizzonti culturali gli aspetti dedicati alla libera rielaborazione dei dati storici, letti con l’integrazione della fantasia creatrice (ma non certo di quella capricciosa e falsificatrice) e dell’arte in genere. Direi anzi che un approccio di questo tipo può costituire non solo un momento piacevole, che non è affatto da disprezzare, ma una fase utile per la divulgazione e la promozione della cultura. L’importante però è che ci sia rispetto sostanziale per la storia e che si riscontri, nell’evento spettacolare, un richiamo esplicito ai diversi piani di lettura. Altrimenti si genera confusione, mescolando indistintamente fantasia e realtà. Questi due elementi possono anche incontrarsi con benefici effetti sui fruitori, come dimostrano le opere di tanti artisti (dal cinema al teatro, dai romanzi alla poesia ecc.), ma sempre nel  quadro di un autentico equilibrio tra le due dimensioni.

            Un caso abbastanza significativo di questa problematica ( se non altro per la eccezionalità dell’evento) è costituito dalla notizia, qua e là attestata nella storiografia locale, del passaggio e del soggiorno dell’imperatore Carlo V a San Severo. In via preliminare, penso che sia opportuno saggiare la validità di questa tradizione, alla luce dei criteri metodologici richiamati negli orientamenti sinteticamente esposti nella Premessa. Tuttavia , per la migliore comprensione del discorso da affrontare, inserirò in via introduttiva una sommaria biografia cronologica del suddetto imperatore.

 

 

 

    2.      Carlo V, vita ed opere

 

Carlo nasce a Gand, l’antica capitale delle Fiandre, il 24 febbraio 1500 (1). Suo padre era Filippo il Bello, duca di Borgogna , figlio  a sua volta dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo e, quindi, erede del trono austriaco. Sua madre era Giovanna, figlia ed erede dei Re Cattolici , Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia. Il matrimonio tra Filippo e Giovanna era stato celebrato nel 1496, venendo subito contrassegnato da un vero e proprio legame d’amore. I due sposi, dalla cui unione nacquero sei figli, posero la loro corte a Bruxelles, ove furono raggiunti da numerosi nobili spagnoli. Purtroppo la morte precoce ed improvvisa del duca Filippo, che si spense a ventotto anni nel settembre 1506 “come un fiore di primavera”, sconvolse la mente di Giovanna, una donna intelligente e sensibile, ma predisposta ad una certa instabilità psichica. L’infelice, passata alla storia con il soprannome di Giovanna la Loca, cioè la Pazza, fu costretta a ritirarsi nel 1509 a Tordesillas, una cittadina nei pressi di Valladolid, con una piccola corte ; ivi rimase, sempre chiusa nel suo isolamento, sino alla morte nel 1555.

          Carlo fu affidato alle cure della zia Margherita d’Austria, figlia di Massimiliano I e,  dal 1507, nominata reggente dei Paesi Bassi ; suo primo precettore fu Adriano di Utrecht, docente nell’università di Lovanio e futuro papa col nome di Adriano VI (1522-1523). Nel 1515 Carlo d’Asburgo, proclamato maggiorenne, diventa duca di Borgogna ; l’anno dopo, essendo morto Ferdinando I d’Aragona, viene proclamato a Bruxelles re di Castiglia e d’Aragona. Nel 1519 succedeva al nonno paterno come titolare del Sacro Romano Impero, con il nome di Carlo V; alla elezione seguì nel 1520 l’incoronazione  in Aquisgrana, nella cappella di Carlo Magno.

            Maturavano intanto eventi di enorme importanza. Nel 1517 Martin Lutero iniziava la sua “protesta”, mentre in America salpava la spedizione di Hernàn Cortès alla conquista del Messico ; nel 1525 il contenzioso aperto con il re di Francia, Francesco I, sfociava nella vittoria di Pavia (il 24 febbraio) e nella cattura del re da parte degli imperiali. Nel maggio 1527 un contingente di lanzichenecchi metteva a sacco Roma, costringendo papa Clemente VII ad una resa umiliante. Nonostante ciò, nell’estate di quel medesimo anno scendeva in Italia un esercito francese, guidato da Odetto de Foix, visconte di Lautrec : le sue truppe, entrate in Piemonte, marciarono su Pavia e poi si diressero verso il sud, attraverso Bologna, Ancona e Pescara. Raggiunta la Puglia, il 4 marzo 1528 il Lautrec entrava in San Severo, proseguendo poi la sua offensiva sino a Napoli ;  fu appunto durante l’assedio di questa città, che il comandante francese moriva per una epidemia nell’agosto del 1528.

          Il 22 febbraio 1530  Carlo venne incoronato a Bologna con la corona ferrea del regno d’Italia ; due giorni dopo, in coincidenza con il suo trentesimo compleanno, ricevette la corona imperiale da papa Clemente VII. A Bologna l’imperatore era entrato solennemente il 6 dicembre 1329, festeggiato con straordinari splendori di apparati scenici e di archi trionfali. Intanto nel 1533 Francisco Pizarro portava a termine la conquista del Perù.

            Il 10 giugno 1535 una imponente flotta imperiale, al comando dello stesso Carlo V, salpava da Cagliari per l’impresa di Tunisi contro i barbareschi, guidati dal famigerato pirata Khayr al-Dìn, soprannominato il Barbarossa. Portata a termine con successo la spedizione, celebrata unanimemente per il suo significato ideologico-politico e per la sua valenza simbolica, l’imperatore decise di passare in Italia, sia per consolidare gli assetti politici dei domini italiani, sia per incontrare il nuovo pontefice Paolo III, eletto nell’ottobre del 1534. Sbarcò pertanto in Sicilia nell’agosto 1535, giungendo a Roma nell’aprile del 1536.

            Tra gli avvenimenti successivi, è sufficiente ricordare il fallimento della spedizione contro Algeri, nel 1541, che segnò la fine della politica mediterranea di Carlo V, e la vittoria a Muhlberg sui protestanti della Lega di Smalcalda (24 aprile 1547).

            Nel 1555 Carlo V decide di abdicare dal ducato di Borgogna, in favore di suo figlio Filippo II, al quale l’anno dopo cedette anche i regni di Spagna e di Sicilia ; nell’agosto 1556 infine lasciava al fratello Ferdinando l’amministrazione dell’impero, di cui conservava il titolo sino alla elezione formale del nuovo imperatore.

            Raggiunse così nel febbraio del 1557 il monastero di San Gerolamo di Yuste nell’Estremadura, accompagnato solo da un piccolo seguito. Venne accolto dai monaci in processione al canto del Te Deum. Mentre le porte si chiudevano alle sue spalle, gli alabardieri della scorta ammucchiavano a terra le loro lance e le bruciavano, perché quelle armi che erano state al servizio di un imperatore così grande non potevano più essere usate per nessun altro.

            A Yuste Carlo V moriva, dopo una lunga agonia, il 21 settembre 1558.

 

 

        3. La tradizione locale

 

            Cominciando a passare in rassegna gli scritti annoverabili nella letteratura storica di ambito locale, almeno per quanto riguarda quelli di maggiore notorietà e di più diffusa consultabilità, mi sembra opportuno prendere le mosse dai più recenti e di procedere man mano all’indietro, verso i più remoti. In tal modo e senza alcuna pretesa di esaustività, cercherò di ricostruire (per così dire) la catena di trasmissione della notizia in esame, al fine precipuo di individuare i punti di partenza e di poter così concentrare su di loro l’analisi critica.

          Poiché non sono riuscito a scovare alcun riferimento alla questione nei saggi compresi negli Studi per una storia di San Severo (2), del 1989, e nelle pagine di San Severo nei secoli (3), del 1984, debbo accontentarmi per il secolo XX di un libretto di mons. Giuseppe Stoico (4), pubblicato nel 1997 e che suscita molte e gravi perplessità da vari punti di vista. Ivi si parla appunto anche della venuta di Carlo V, nel 1534 [ sic !], e della istituzione di un governo cittadino di quaranta membri.               

             Questa datazione ( chiaramente erronea) rinvia direttamente, anche se in assenza di indicazioni bibliografiche, alle Memorie storiche di Francesco De Ambrosio (5), pubblicate nel 1875. Questo autore infatti riferisce che Carlo V “ reduce dalla spedizione di Tunisi nel 1534 [ sic ! ] visitò tra le città del regno anche Sansevero, e dimorò nelle case di Girolamo Torres” ; inoltre, in base ad un privilegio da lui rilasciato, “erano dichiarati nobili ventiquattro famiglie della città, tra le quali otto spagnole che vi avevano la loro dimora” (6). Il De Ambrosio menzionava in nota, quale fonte di tale notizia, le Memorie del Tito, precisamente la pagina 25. Dell’opera di quest’ultimo autore parlerò tra poco ; ci basti intanto aver individuato, per così dire, l’ultimo anello della catena o anche il primo, conteggiando all’inverso.

            Al 1871 risale invece la prima edizione degli Appunti cronologici di Vincenzo Gervasio (7), ristampati con correzioni ed aggiunte dell’autore (che le aveva lasciate inedite) nel 1993. Alla visita di Carlo V (“il quale nel 1536 di ritorno da Tunisi nella nostra città tenne soggiorno”), ma soprattutto ad un alleggerimento dei gravami fiscali da parte dell’imperatore il Gervasio accenna brevemente, rinviando nella nota 47  alla Storia civile del Giannone, senza ulteriori precisazioni. Sembra dunque di capire (né può essere diversamente, a causa dell’indicazione del titolo dell’opera), che il Giannone in questione non sia altri che il celebre Pietro Giannone, nativo di Ischitella. A quest’ultimo, ma in riferimento (a quel che mi risulta, erroneamente) anche ad altre pagine dello scritto del Gervasio, rinvia il moderno indice della seconda edizione. Come si avrà modo di vedere, in poche righe si è creata parecchia confusione. C’è da aggiungere ancora che nei suoi Appunti Vincenzo Gervasio non fa alcun riferimento, a quel che mi risulta, al testo di un manoscritto, di autore anonimo, di cui pare fosse in possesso. Ma dei problemi collegati a tale questione dirò qualcosa tra breve.

            Giungiamo così, risalendo indietro nel tempo, alle già ricordate Memorie di Vincenzo Tito (8), arciprete della parrocchia di San Giovanni Battista in San Severo, una delle quattro attestate sin dai primi tempi dell’abitato. Nelle Memorie, pubblicate nel 1859, troviamo in effetti, alla pagina indicata dal De Ambrosio, un accenno (piuttosto sbrigativo) del Tito alla visita di Carlo V :”Seguì il 1536, nel qual anno lo Imperatore Carlo V reduce dalla spedizione di Tunisi visitando il nostro Regno onorò di sua presenza anche Sansevero”. L’autore invece si dilunga, sempre nella medesima pagina, sul sistema del governo municipale dell’epoca, confermato o forse addirittura istituito (“fondato”) dall’imperatore per l’occasione. Si trattava dei cosiddetti quaranta Reggimentali, le cui famiglie si trasmettevano ereditariamente il privilegio dell’amministrazione cittadina, costituendo di fatto una sorta di oligarchia locale. Circa quest’ultimo aspetto il Tito rinviava in nota al manoscritto del Lucchino (di cui tra breve), mentre per il soggiorno vero e proprio dell’imperatore citava genericamente l’opera del Botta, senza alcuna ulteriore precisazione.

            Accantonando per il momento il controllo del riferimento bibliografico al Botta, mi sembra non trascurabile osservare che mons. Giovan Camillo Rossi (9), vescovo di San Severo dal 1818 al 1826, non fa alcun cenno al soggiorno dell’imperatore. Eppure un evento del genere avrebbe dovuto necessariamente coinvolgere in qualche modo il clero locale, secondo il cerimoniale che troviamo applicato  invariabilmente sia in ossequio all’imperatore sia in altri casi analoghi, precedenti e susseguenti. Se quindi ciò fosse avvenuto, ne sarebbe rimasta qualche traccia nelle memorie ecclesiastiche del luogo, che il Rossi non avrebbe mancato di annotare con la sua consueta scrupolosità.

            In questo percorso a ritroso nel tempo, si giunge così al Teatro di Matteo Fraccacreta, un’opera tanto farraginosa quanto traboccante di erudizione, cui tutti gli storici locali hanno sempre attinto a piene mani e che merita tuttora di essere consultata (sia pure con una certa prudenza) per gli spunti e i dati che offre. Fraccacreta non delude neppure questa volta, anche se purtroppo la sua relazione risulta incompleta. Innanzitutto, dell’ottava 131 della rapsodia IX (“Di Sansevero I” ) un verso allude ad una esenzione dalle tasse, che non è chiaro da chi sia stata concessa, se dall’imperatore o dal viceré di Napoli, don Pietro di Toledo : “Sansevero alleviò da’pesi appieno”. Manca però la nota esplicativa corrispondente (la cosiddetta parafrasi n. 102, pur preannunziata), che avrebbe meglio informato intorno alle circostanze di questo privilegio (10). Tuttavia l’enigma viene sciolto dalla Parafrasi nn. 10-12 della successiva rapsodia X, a favore  del viceré (11).

            Più interessante, dal nostro punto di vista, è l’ottava 4 della rapsodia X (“Di Sansevero II”), che afferma :”E se il vero la Fama a noi ridice, / Allora fu, che Carlo Quinto Augusto / […] / Venne in Napoli, e poi dalla Felice / Campania in Sansevero allor, che onusto / Di lauri più di un suo Real Campione / Fu qui col Campo suo di guarnigione” (12).

            A spiegare questi versi piuttosto ostici soccorrono le parafrasi nn. 10-12, che ho letto nella trascrizione ancora inedita a cura di Pietro Bruno (13). Il Fraccacreta dunque, dopo aver ricordato (sulle orme, come dice egli stesso, di Pietro Giannone) l’arrivo a Napoli di Carlo V, il 25 novembre 1535, e la sua partenza per Roma il 25  [ sic ! ] marzo 1536, afferma :”Or è tradizione, che in que’ 16 [sic !] mesi da Napoli sceso in Puglia, visitò pur Sansevero, qui alloggiò rimpetto la Parocchia [sic !] di S. Severino nel palazzo, in cui fu Alfonso I, quando era del Sig.r Luca Torres ; poi Ferdinando I, quando era del Sig.r Nicola Rosa […]”. A parte altre ipotesi circa gli alloggiamenti imperiali, che denotano la mancanza di dati incontrovertibili, il nostro autore aggiunge :”Nel  Duomo leggesi, che Carlo assistè in S. Severino nel dì festivo del Santo 8 Gen., confermò all’Università i privilegi. Se la sua venuta qui tacciono Giannone [ che qui è ancora Pietro ], e gli altri Storiografi, è argomento a pro della nostra tradizione, chi tace, afferma”.

            Accantonando quest’ultima dichiarazione di metodologia storica, indubbiamente molto singolare ed abbastanza pericolosa, mi limito per ora ad osservare che il Fraccacreta non può fare altro che basarsi su una labile tradizione locale. Aggiungo che anche gli aspetti formali della sua prosa non oltrepassano il livello di appunti frettolosamente annotati e, quindi, probabilmente poco meditati. Ma il suo scritto si presta ad ulteriori osservazioni, che formulerò tra breve, dopo aver concluso la disamina della restante letteratura disponibile.

            L’oscurità più completa avvolge invece un’opera di cronachistica cittadina, che appare come un fantasma nel commento che Nicola Checchia dedicò nel 1930 alla sua edizione rimaneggiata delle Memorie di Antonio Lucchino (14). Nella prima delle Note del Checchia, alla pagina 57, il nostro autore dichiarava di aver utilizzato, tra l’altro, “un interessante ms. inedito di ignoto autore gentilmente favoritomi in lettura, con altri pochi documenti, dalla famiglia del compianto Gaetano Del Vecchio (15), e che porta […] sul frontespizio, l’indicazione, scritta evidentemente da mano diversa da quella che vergò il testo : di Vincenzo Gervasio fu Scipione”. Il Checchia avvertiva che lo avrebbe all’occorrenza citato con la sigla “MS. Gervasio”, come appunto avviene talvolta nelle note successive. Purtroppo di questo manoscritto non sappiamo nient’altro, né che fine abbia fatto o nelle mani di chi eventualmente si trovi. Per fortuna, il Checchia ci fornisce indirettamente una indicazione cronologica preziosa, quando aggiunge che il manoscritto riporta l’elenco degli arcipreti di San Nicola “sino al presente anno 1733”. Intorno a questa data pertanto è da fissare l’epoca di composizione del suddetto misterioso manoscritto, che ( sulla base della nota n. 4 del Checchia, alle pagine 66-67 ) menziona l’arrivo ed il soggiorno di Carlo V a San Severo. I passaggi da un concetto all’altro di questo episodio, così come formulati nel percorso logico seguito dal nostro Anonimo, meritano di essere attentamente osservati, soprattutto alla luce di quanto alla fine del mio saggio potrà emergere dal confronto di tutti gli elementi della tradizione.

            Nel brano riportato dal Checchia, l’Anonimo inizia il suo discorso con l’evocare l’infeudamento cui San Severo fu sottoposta alle sue origini da parte dei monaci benedettini di San Pietro di Torremaggiore e dal quale, mediante un privilegio concesso da Carlo I d’Angiò [ regnante dal 1266 al 1285], sarebbe stata emancipata. Questo privilegio, col quale era stato ottenuto in pratica lo status di demanialità, insieme ad altri privilegi era conservato “nell’Archivio di questa città”. Essi sarebbero stati tutti confermati da Carlo V, in occasione della sua venuta a San Severo, “nel passaggio [che] fe’ per la Puglia”. L’imperatore avrebbe soggiornato “nella casa di olim De Torres all’incontro la Parrocchia di S. Severino, nella vigilia di detto Santo [cioè il 7 gennaio]” e avrebbe quindi confermato i suddetti privilegi, che “furono sottoscritti, e firmati coll’Imperial Suggello in detta Chiesa ad istanza del Popolo, ove S[ua] M[aestà] C[attolica] assisteva alli Vesperi solenni”. Pur non risultando del tutto chiaro, a voler sofisticare, se la cerimonia di conferma sia avvenuta la sera del 7 o dell’8 gennaio, i fatti e la relativa cronologia sono indicati con precisione. L’Anonimo prosegue immediatamente con l’annotazione dell’annuo tributo di cento libbre di cera “al glorioso S. Protettore […]; onde per tali grazie confirmate, diventò [ San Severo ] il giardino della nobiltà, delle virtù e delle ricchezze a tal segno che vi si costituì il Tribunale della Regia Udienza (16), e il seggio de’ più nobili Patrizii, che lo governassero, oggi ridotto al numero di ventiquattro Graduati”. Tra questi si annoveravano i discendenti di nobili cavalieri spagnoli, che si sarebbero “affezionati” alla città “colla dimora dell’Imperatore Carlo V”.

            Il Checchia, alla pagina 61 della nota n. 2, riporta sinteticamente alcuni passi di uno scritto di mons. Francesco Antonio Giannone, pubblicato nel 1675, nel quale si accenna al soggiorno di Carlo V in San Severo. Si tornerà tra breve in modo analitico su questo autore, che si propone come elemento-chiave all’origine della tradizione qui considerata. Per ora è opportuno rilevare che questo testo risulta conosciuto anche dal Fraccacreta, che però lo segue solo in parte.               

            Proseguendo intanto in questa rassegna a ritroso, conviene infine provvedere al controllo di quanto riporta nelle sue Memorie Antonio Lucchino, di cui si può attualmente utilizzare una trascrizione integrale (17). Il Lucchino, che scrisse o che completò le Memorie poco dopo il devastante terremoto del 30 luglio 1627 e che quindi era abbastanza vicino ai tempi del viaggio di Carlo V, non fa parola del soggiorno dell’imperatore a San Severo ; anzi, pur menzionando il Consiglio dei Quaranta e la sua composizione, strutturata sulla base di una oligarchia di famiglie nobili, non evidenzia alcun intervento in proposito del sovrano (18). E’ da notare inoltre che, elencando i danni apportati dal terremoto ai principali palazzi dell’epoca, egli cita “quel del signor Luca Torres, che fu del già detto Nicolò Rosa, ove abitò due volte il Re Ferdinando primo d’Aragona rovinò quasi da’ fondamenti (19). Sarebbe molto singolare che, nel mentre viene ricordato un illustre precedente, non si faccia il benché minimo cenno a quello più recente e ancor più prestigioso. 

 

 

4.     

            4. Alle origini della tradizione locale: Francesco Antonio Giannone, l’Anonimo e Matteo Fraccacreta

                 

            Dall’esame dei testi finora esaminati, emergono sostanzialmente tre autori, dai quali derivano in maniera piuttosto confusa le affermazioni acriticamente ripetute da tutti gli altri anelli della catena. Un caso a parte è quello del Botta, cui Vincenzo Tito sbrigativamente rinviava nella nota corrispondente alla citazione del viaggio. Indubbiamente il Tito si riferiva alla ben nota Storia d’Italia di Carlo Botta, pubblicata tra il 1835 ed il 1836. Nella prima parte, che contiene gli eventi degli anni 1534-1660, vi è in effetti una breve descrizione dell’impresa di Carlo V contro Tunisi ed un accenno al suo ritorno trionfale a Napoli (20); nulla invece si dice per quanto riguarda San Severo, neppure nella forma di una minima allusione. Ne consegue che il Tito non può (o non vuole)  rivelare da chi ha tratto la notizia del soggiorno in città dell’imperatore, forse perché non ne era tanto sicuro. Egli in proposito preferisce dunque (consapevolmente o meno) intorbidare le acque : la citazione del Botta  infatti dovrebbe essere utilizzata solo per una conferma generica del viaggio nel Regno, non certo per far credere al lettore, distratto o ingenuo,  che in essa si parli anche della visita a San Severo, introducendola quasi come una testimonianza autorevole dell’evento. In realtà, come nella parte finale di questo saggio avrò modo di dimostrare, il Tito ricava la suddetta notizia da mons. Francesco Antonio Giannone.

          Conviene pertanto esaminare più da vicino gli indizi che, per vie diverse ma convergenti, ci conducono ai tre autori indicati in epigrafe. Comincio, non solo per motivi cronologici ma anche per l’influenza esercitata, da quelli che riguardano Francesco Antonio Giannone.

            E’ bene prendere le mosse dal testo di Vincenzo Gervasio, il quale cita come sua specifica fonte intorno all’episodio sanseverese la Storia civile del Giannone, che dunque è da identificare con il celebre Pietro Giannone ; questa identificazione, oltre che nella nota 47, è confermata anche nel moderno indice della ristampa. Al contrario, la fonte non è da riconoscere nella Storia civile di Pietro Giannone, del quale farò cenno al capitolo successivo, ma in uno scritto di Francesco Antonio Giannone, che non ha nulla a che vedere col primo. Il nostro Francesco Antonio Giannone

viene del resto esplicitamente menzionato dallo stesso Gervasio, all’inizio della sua Introduzione di taglio bibliografico (21). Questa indicazione ci può servire come punto di partenza, con le integrazioni fornite sul personaggio dal Fraccacreta e dal Tito, a rintracciare il bandolo della matassa.

            Il Fraccacreta infatti, nella parafrasi n. 23 della Rapsodia VIII (“Di Torremaggiore”), compila una sintetica biografia di Francesco Antonio Giannone da San Severo, vescovo di Boiano dal 10 settembre 1685 al febbraio 1707 (22). Tra l’altro ne trascrive un sonetto, oltre

 ad alcuni brani di una lettera da lui inviata a Giovan Francesco de Sangro sulle antichità di San Severo, datata da Manfredonia il 1° aprile 1667. In particolare, mons. Giannone affermava :” Si compiacque di questa Città [ cioè, San Severo ] Carlo V, che l’onorò colla sua presenza molti giorni ; e le concedette molti privilegi, che originalmente si conservano nella Cancelleria …” (23).     

            Questa dunque è la base di partenza, invero piuttosto esigua, di tutte le successive elucubrazioni della storiografia locale. E’ strano tuttavia che il Fraccacreta non la utilizzi esplicitamente nella già citata Parafrasi nn. 10-12 della Rapsodia X, ove invece cita da un punto di vista generale il testo di Pietro Giannone, che non accenna affatto a San Severo. Anche il riferimento alla documentazione esistente “nel Duomo”, pur coincidente nella sostanza con quanto espresso da mons. Giannone nella sua lettera, resta abbastanza nel vago, contrariamente alla usuale precisione del Fraccacreta nell’impiego delle sue fonti documentarie. Egli comunque non manca di citare ancora mons. Giannone, nella sua qualità e nelle sue funzioni di vescovo di Boiano, sempre nella Rapsodia X (24).

            Conviene dunque esaminare più da vicino l’epistola di mons. Giannone, possibilmente nella sua formulazione originaria ed integrale, dato che il Fraccacreta ci trasmette una versione piuttosto frammentaria ; allo stesso modo, bisognerebbe conoscere qualcosa di più intorno al suo autore. Il testo della lettera venne pubblicato nel 1675 a Roma, nel terzo tomo di una raccolta curata dall’abate Michele Giustiniani ed intitolata Lettere memorabili (25) ; non venne invece inserita in una successiva edizione napoletana, a cura del Bulifon, comprendente una scelta dei testi più significativi e perciò intitolata Delle lettere memorabili (26) . I motivi di questa mancata ristampa potrebbero essere i più vari, ma non mi sentirei di escludere del tutto ( alla luce, com’è ovvio, delle mie considerazioni finali) un probabile scarso gradimento da parte dell’illustre Casato feudale dei Di Sangro.

            L’epistola di Francesco Antonio Giannone (la XLIV del tomo III ) è infatti indirizzata al principe di San Severo, Giovan Francesco Di Sangro, che ne risulta anche il committente, avendo egli richiesto al Giannone “notizia delle antichità della mia [ del Giannone ] Patria, e delle cose memorabili di essa” [col. 265]. Purtroppo, si schermisce il nostro autore (anche in ossequio ai vigenti canoni della retorica) , sarà per lui molto difficile soddisfare la curiosità del principe, avendo “il tempo, che trionfa tirannicamente delle vite delle Città, e de’ Regni, […] confinato nelle tenebre dell’obblivione, della Città di San Severo le memorie più illustri” [ ibid.]. Ciò premesso, il Giannone inizia il suo “ragguaglio” con la leggenda di Diomede (27), l’eroe greco della guerra di Troia, che sarebbe approdato nella Daunia e vi avrebbe fondato varie città : tra le altre, Castel Drione, il cui nome sarebbe derivato dal colle, sul quale si ergevano “due gran Tempij, uno edificato à Calcante indovino, e l’altro à Podalirio, Dio de’ Greci” [ coll. 265-267]. Il racconto prosegue con il cambio del nome dell’abitato in quello attuale di San Severo, ad opera dell’arcivescovo [ sic !] di Siponto, il mitico Lorenzo Maiorano. Sarebbe poi subentrato un lungo periodo di dominazione da  parte di Barbari e di Saraceni, sino a quando gli abitanti se ne liberarono facendone strage [coll. 267-268]. Di tutta questa narrazione, costruita sopra una trama di leggende , l’unico dato concreto è rappresentato dalla menzione di un “gran pozzo”, denominato di S. Lucia e sito presso “quella porta della Città, che oggi è chiamata di Foggia”. Debbo far notare però che appare già evidente un filo rosso che spiega l’impostazione del discorso giannoniano : si tratta dell’esaltazione delle antichità cittadine, sia civili che religiose. Le prime risalirebbero sostanzialmente ai tempi immediatamente successivi alla guerra di Troia, non diversamente quindi (per richiamare un paragone illustre) ad Enea e ai primordi di Roma. Le seconde mettono in campo il nome più celebre circa le origini cristiane della Daunia, cioè il vescovo di Siponto (che la tradizione chiama Lorenzo Maiorano) cui si collegano le origini del culto dell’arcangelo Michele sul monte Gargano (28). Anche la genericità della descrizione degli eventi successivi si spiega con l’assenza di fatti eclatanti, ma soprattutto si chiude con il presunto vittorioso sterminio dei barbari oppressori.

          A questo punto, saltando a pie’ pari ogni altro argomento e sostanzialmente l’intero periodo medievale, si passa direttamente all’epoca di Carlo V, quando la città di San Severo teneva sotto la propria giurisdizione “dieci Castelli. Questi erano S. Andrea, la Motta del Lupo, Casalorda, la Motta della Regina, Santa Iusta, Sant’Antonino, la Motta del bel vedere, l’Oliveto, San Matteo, e San Riccardo ; de quali tra l’erbe ancora ne verdeggiano le vestigie” [col. 268]. Subito dopo troviamo l’attesa menzione del soggiorno dell’imperatore :”Si compiacque tanto di questa Città Carlo V, che l’onorò con la sua presenza molti, e molti giorni, e le concedette moltissimi privilegi, che originalmente si conservano nella Cancellaria del Pubblico” [col. 268]. Ritornerò tra breve su queste affermazioni, preferendo ora richiamare le pagine susseguenti di questo testo. Ivi il Giannone, esaltando l’importanza della città (capitale della provincia, sede della Regia Udienza ecc.), fa qualche cenno alle vicende collegate all’infeudamento : dapprima ricorda che gli abitanti non volevano assoggettarsi “à Baroni del Regno”, poi sostenendo con una certa ostentata untuosità che essi “e per l’inclinazione grande, & osservanza dovuta alla sempre mai precarissima [ sic ! ] Casa di V[ostra] E[eccellenza] si diedero poi per Vassalli al Sig. Duca di Torremaggiore Giovan Francesco di sempre gloriosa, e venerabile memoria, il quale […] n’ottenne di San Severo ilt titolo di Principe” [coll. 268-269]. Tutto il resto dello scritto, pari alla metà circa dell’intera epistola, è dedicata ad una rassegna degli uomini illustri che fiorirono in San Severo e delle famiglia nobili che vi ebbero dimora. Aggiungo solo che nella succinta bibliografia finale è elencato il consueto armamentario cui si attingeva : dal Cluverio a Pompeo Trogo, da una Cronaca universale della Magna Grecia a Leandro Alberti (29) ; manca però qualsiasi indicazione documentaria.

            Per quanto infine riguarda Giovan Francesco Di Sangro, mi limito a segnalare che questo personaggio non è da confondere con l’omonimo suo avo, al quale San Severo venne venduta nel 1579 per 82.500 ducati, regnando Filippo II. Il principe Giovan Francesco, destinatario dell’epistola del Giannone, era succeduto ancora molto giovane a suo padre Paolo nel 1642 e sarebbe vissuto sino al 1692 (30).

            Circa il cursus honorum in campo ecclesiastico del Giannone, ricaviamo qualche notizia dall’Italia sacra dell’Ughelli, nell’edizione aggiornata del Coleti (31). Francesco Antonio Giannone, di famiglia patrizia originaria di Bitonto, era nato a San Severo; laureatosi in Diritto e divenuto protonotario apostolico, era stato vicario generale dell’arcivescovo di Amalfi e poi di quello di Benevento. Fu nominato vescovo di Boiano il 10 settembre 1685 ; morì nel febbraio 1708. Qualche lieve variante rispetto a questi dati si riscontra nel Fraccacreta (32) e nel De Ambrosio (33), in particolare per quanto riguarda la data di morte : questi ultimi infatti anticipano di un anno la data della sua scomparsa, ponendola nel 1707. Il Tito ci fornisce inoltre una informazione (34), che potrebbe essere di una qualche rilevanza ai fini del nostro tema principale. All’epoca della venuta di Carlo V, tra le famiglie inserite nel novero privilegiato delle Reggimentarie ci sarebbe stata anche quella dell’arciprete di San Giovanni Battista, don Leonardo de Jannone ( attestato anche con le varianti grafiche di Jannonio o Giannone), defunto probabilmente intorno al 1540. Ad ulteriore prova del rango gentilizio di questa famiglia, il Tito ricordava l’esistenza di un diritto di patronato sull’altare e la cappella dedicata a San Bartolomeo nella chiesa di San Giovanni Battista, con l’annessa sepoltura. A tal proposito, è stata tramandata una notizia un po’ macabra riguardante i funerali della madre di Francesco Antonio, di nome Camilla Saluzzi, originaria di Napoli. Costei era deceduta il 21 agosto 1661 e suo marito, il “dottor” Giuseppe Giannone, aveva preferito seppellirla in una tomba della chiesa di Sant’Agostino, senza però pagare i diritti funerari che spettavano al clero parrocchiale di San Giovanni Battista, come sancito da un decreto del vescovo Francesco Densa (1658-1670). Il cadavere venne quindi dissotterrato e trasportato notte tempo nella chiesa parrocchiale, al fine di ottenere i prescritti pagamenti (35).

            Dopo aver così individuato il punto di partenza, almeno allo stato attuale delle ricerche, della tradizione sul Carlo V sanseverese, occorre evidenziare il ruolo svolto a tal proposito dall’Anonimo del “Manoscritto Gervasio”. Nella versione da lui tramandata è possibile individuare elementi di continuità con l’orientamento impresso da mons. Giannone, ma anche aspetti ed accentuazioni sicuramente innovativi rispetto al testo precedente. Da un lato infatti si insiste in una intrinseca esaltazione delle libertà demaniali di San Severo, in chiara contrapposizione alla subentrata fase feudale sotto i Di Sangro, e quindi anche della nobiltà del patriziato locale, sostenuto dall’autorevole conferma da parte dell’imperatore. Dal racconto dell’Anonimo appare inoltre, nella descrizione dei dettagli, un esplicito e quasi conclamato rapporto della vicenda con il patronato di san Severino sulla città, simbolo evidente di quell’autonomia di governo, di cui il ceto dei Reggimentari era di fatto l’esclusivo depositario.

            Il terzo autore alla base della tradizione sulla presenza di Carlo V è chiaramente Matteo Fraccacreta, che non risulta tanto il formulatore di un proprio filone interpretativo, quanto piuttosto l’anello di congiunzione tra la versione di mons. Giannone e quella dell’Anonimo. Ad essere più precisi, il Fraccacreta sembra aver voluto recuperare, sul piano della sua consueta erudizione,

soprattutto i dati apparentemente più concreti offerti dall’Anonimo, senza tuttavia esercitare alcun vaglio critico intorno ai singoli punti in questione. Aggiungo che egli non cita affatto il testo dell’Anonimo, sicchè sarebbe stato un problema irresolubile (se non ci fossero state le preziose annotazioni del Checchia) capire da quale fonte provenissero le indicazioni cronologiche e topografiche del Fraccacreta.

 

 

5.      5. Le fonti e la letteratura sul viaggio di Carlo V in Italia (1535-1536)

    

        Mettiamo da canto per il momento l’esame della tradizione locale, circoscritta al soggiorno (vero o presunto) dell’imperatore a San Severo. Da un punto di vista più generale, è sempre opportuno allargare gli orizzonti della ricerca, altrimenti si resta intrappolati in un ingorgo senza vie di uscita, tornando e ritornando sempre sulle medesime questioni, come il celebre detto del cane che cerca di mordersi la coda. A tal proposito possiamo usufruire della cronaca, molto dettagliata, di Gregorio Rosso (36), che scriveva a ridosso degli eventi. Egli annota che l’imperatore, di ritorno dall’impresa di Tunisi, era sbarcato a Trapani il 20 agosto 1535, giungendo a Palermo il 20 settembre. Raggiunta poi Messina, Carlo V passava a Reggio e di lì risaliva lungo la Calabria tra folle festanti e la splendida ospitalità dei signori locali ; in particolare, omaggiarono il sovrano nelle loro terre i principi di Bisignano e di Salerno. Il 25 novembre l’imperatore faceva il suo solenne ingresso in Napoli, ove rimase tutto il periodo invernale tra grandi festeggiamenti ed impegni politici, concedendo udienza a tutti coloro che ne facessero richiesta. Importa notare che domenica 3 gennaio 1536 l’imperatore partecipò ad una giostra di tori ; il 6 gennaio ci furono altri tornei e balli ; l’8 gennaio si aprì con grande pompa in San Lorenzo, alla presenza di Carlo V, la seduta inaugurale del Parlamento, che il giorno dopo deliberò un donativo di un milione e cinquecentomila ducati d’oro. Nel mentre continuavano i lavori dell’assemblea, l’imperatore non mancava di partecipare a feste e balli, in concomitanza anche con il carnevale. Il 2 febbraio, giorno della Candelora, l’imperatore concedeva udienza alla nobiltà ; il giorno successivo si chiudeva la sessione del parlamento, mentre il 4 febbraio veniva emanato l’editto contro gli eretici. Il 22 marzo Carlo V lasciava Napoli, per raggiungere Roma il 5 aprile. Il 18 di quel medesimo mese l’imperatore partiva per l’Italia settentrionale, pervenendo ad Asti il 10 giugno 1536.

            Più sintetico, ma in piena consonanza con la cronaca del Rosso, è il ragguaglio di Giovanni Tarchagnota della città di Gaeta. Anch’egli parla dell’arrivo in Sicilia nell’agosto del  1535 e del suo soggiorno a Napoli :”[…] e vi stette con suo gran piacere in feste & tornei tutta quella invernata”. Continua poi con il trasferimento a Roma, ove celebrò la Pasqua del 1536, per procedere successivamente verso il Piemonte e la Provenza (37).

            All’assoluto e compatto silenzio delle fonti intorno a qualsiasi cenno di viaggio non dico verso San Severo, ma verso una qualsiasi località della Puglia, fa riscontro l’analogo atteggiamento della letteratura specifica, sia quella più recente sia la più datata. Tralasciando le opere che tacciono del tutto circa questo periodo trascorso da Carlo V nell’Italia meridionale, mi limito a citare la Historia di Giovanni Antonio Summonte (38), il cui testo presenta solo lievi varianti rispetto alle notizie sopra riportate dalle fonti, tali da non modificare comunque il quadro già delineato. Le vicende editoriali di quest’opera, come ha dimostrato in un suo saggio Aurelio Musi (39), sono state molto tormentate, tanto è vero che i primi due tomi apparvero nel 1602, mentre il terzo e il quarto furono pubblicati postumi nel 1640 e nel 1643 ; la nuova edizione comparve solo nel 1675. La descrizione dettagliata che il Summonte riserva all’ingresso di Carlo V in Napoli si spiega con la sua idea del primato della capitale del Regno, per cui la sottomissione all’autorità imperiale deve trovare il suo contrappeso nel rispetto dell’autonomia del Regno.

            Anche Pietro Giannone, nella sua Istoria civile (40), riserva ampio spazio alle vicende napoletane, contrassegnate dagli intrighi della nobiltà, dalle pompe e dai conviti ; egli accenna inoltre alle sedute del Parlamento napoletano ed alla concessione, nella seduta del 3 febbraio 1536, di una serie di privilegi. A questi ultimi, costituiti da trentuno “capitoli e grazie” per la città di Napoli e da altri ventiquattro “in beneficio di alcune province e particolari”, senza ulteriori specificazioni, accenna nel volume II della sua Storia anche Annibale Di Niscia (41). Su tal genere di materie appare utile la consultazione di una raccolta, pubblicata nel 1720, ove tra l’altro sono trascritti i discorsi pronunciati l’8 gennaio 1536, rispettivamente dall’imperatore e da Gerolamo Severino, nobile del seggio di Porto, alla presenza di tutti i baroni ed i rappresentanti delle città demaniali del Regno (42). Agli eventi della permanenza di carlo V in Sicilia si rivolge invece l’attenzione di Giovanni E. Di Blasi (43), che nel tratto da Palermo a Messina ne ricorda il passaggio per le città di Termini, Polizzi, Randazzo e Taormina.

            Per quanto riguarda la letteratura più recente, citerei dapprima un gruppo di biografie di Carlo V, alle quali ovviamente rimando per chi volesse acquisire ulteriore bibliografia. Solo un brevissimo accenno al viaggio dell’imperatore in Italia è riservato nel suo libro da Jean-Michel Sallmann (44). Altrettanto stringato è il resoconto di Alfred Kohler (45), tutto incentrato sul simbolismo degli ingressi trionfali nelle città, come quelli di Palermo, Messina e Napoli. Abbastanza sobria appare anche la descrizione che ne fa Karl Brandi (46), che si sofferma sulle celebrazioni avvenute a Messina ed a Napoli ; in riferimento al percorso da questa città a Roma, egli menziona le tappe di Capua, Gaeta e Terracina. Pierpaolo Merlin, da parte sua, evidenzia il significato ideologico-politico del soggiorno imperiale in Italia e la sua forte valenza simbolica, nel quadro della trionfale accoglienza tributata al nuovo Scipione l’Africano (47).

            Allo scopo di meglio valutare nel suo contesto la validità della tradizione locale in rapporto alla questione in esame, mi è sembrato opportuno compiere un breve sondaggio anche nell’ambito della storiografia regionale e provinciale. A parte infatti lo scrupolo di non lasciare nulla di intentato nella ricerca, ovviamente nei limiti del possibile e del ragionevole, la motivazione di fondo consiste nel mio convincimento di procedere ad una ulteriore controprova. Mi sembra ovvia infatti l’ipotesi che un eventuale viaggio di Carlo V a San Severo avrebbe certamente lasciato qualche traccia nella memoria storica delle zone limitrofe, per non parlare di quelle che non poteva non attraversare. Non mi persuade infatti l’idea che l’imperatore non avesse approfittato delle circostanze per fare tappa, con il consueto sfoggio di pompe festive e di rutilanti cerimoniali, in qualche altra città posta lungo l’ipotetico tragitto in direzione di San Severo. Ad esempio, sarebbe certamente passato per Foggia, verso la quale Carlo V dimostrò più volte la sua benevolenza, come dimostra la conferma delle franchigie cittadine (con privilegio da Bologna del 1533) ed una lettera ai rappresentanti della città (inviata da Pavia nel 1543) : eppure, non si trova alcun cenno di una presenza del sovrano a Foggia (48). E’ noto anzi che proprio nel 1536, durante il suo soggiorno napoletano, Carlo V provvedeva alla rifondazione della Dogana delle Pecore, come attestano le cosiddette Grazie dell’11 febbraio di quell’anno (49). Sempre per quanto riguarda la Capitanata, è noto che l’imperatore, sotto la data del 22 marzo 1536, confermò da Napoli tutti i privilegi di cui godeva la città di Troia (50). Se poi consideriamo un’altra importante città pugliese, come Barletta (51), sappiamo che Carlo V se ne interessò più volte, come attestano le epigrafi riguardanti i lavori di ristrutturazione del castello (  di cui la prima risale al 1537) e le esenzioni fiscali concesse nel 1532 , a ristoro dei danni causati nel 1528 da un luogotenente del Lautrec  (52). Non mi risulta però che l’imperatore si sia mai recato di persona  a Barletta, così come non andò a Lecce, che era uno dei centri più importanti dell’intero Mezzogiorno e dove, nel 1548, venne eretta in suo onore una porta trionfale (53). Qualche altro spunto interessante su tematiche collegate alla questione in esame si può ricavare da alcune relazioni, pubblicate negli Atti del Congresso internazionale di studi sull’età del Viceregno, concernenti la struttura amministrativa della Puglia e il Parlamento napoletano (54). Ulteriori ricerche in merito hanno fornito una serie di dettagli, apparsi però poco significativi ai nostri fini.

            Di carattere più generale, ma indispensabili per la comprensione degli eventi, risultano alcuni studi riguardanti il Regno di Napoli  nel suo complesso. Aurelio Musi, ad esempio, vi riconosce i segni di un processo di diffusione del mito del sovrano (55), mentre Angelantonio Spagnoletti concentra la sua analisi sulla dislocazione delle èlites all’interno degli stati italiani, in rapporto alle spinte provenienti dai conflitti europei in corso (56). Un saggio di Guido D’Agostino riconosce nel soggiorno di Carlo V a Napoli effetti politici cospicui, man mano realizzati con ferma determinazione dal viceré  don Pietro di Toledo (57). Più specifico, ma interessante per la possibilità di confronti sulla simbologia del potere imperiale, risulta uno studio di Silvio Leydi (58).

              Voglio inoltre segnalare, anche perché ho avuto di recente l’occasione di occuparmi della storia medievale di questa città, una testimonianza sul passaggio di Carlo V per Corigliano Calabro, in una tappa del suo viaggio verso Napoli. Nel palazzo di Santo Mauro infatti, ai piedi della collina su cui si erge Corigliano, il principe Pietro Antonio Sanseverino ospitò munificamente (dal 9 al 12 novembre 1535 ) l’imperatore, che si dilettò in proficue partite di caccia (59). A proposito dei Sanseverino, una delle più illustri Casate del Regno di Napoli, nei cui “stati” feudali (che si estendevano, sotto i vari rami della famiglia, dalla Calabria alla Campania) transitò il corteo imperiale, i contemporanei tramandarono lodi sperticate per la loro esuberante ospitalità; in particolare si ricordano le tappe alla certosa di San Lorenzo di Padula e di Sala Consilina. “Nella gran cantina” della certosa, che era stata fondata da Tommaso II Sanseverino, i monaci prepararono per l’imperatore ed il suo seguito “un gran numero di tavole, e vasi pieni di pane, carne, cascio”, nonché una enorme frittata di ben mille uova ( 60). Passando poi per Sala Consilina :”furono da que’ Cittadini compartite le Menze in tre grandissime tende composte di tavole […], per ogni tavola imbandita dieci persone fra Nobili e Cittadini ; come parimenti fu fatto apparecchio in centoventi case di detta Città, che furono magnificamente provvedute di letti, vasellame, e di ogni altro ricco mobile, e ciò per ospitare Sua Maestà, e tutti i Signori, che lo seguivano” (61). E’ appena il caso di segnalare che il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, che aveva splendidamente accolto

l’imperatore e che ne aveva anche tollerato il corteggiamento nei confronti della sua bellissima moglie, Isabella Villamarina, finì nel 1568 esule e ribelle in Francia (62).

            Al termine di questa rassegna, che avrebbe potuto essere ancora più ampia, è assolutamente doveroso menzionare il saggio di Maria Antonietta Visceglia (63), che ha fatto di recente il punto della situazione, in rapporto specifico con il viaggio di Carlo V nel Regno, che coinvolgeva una serie di aspetti politici, amministrativi ed ideologici. Ne richiamo in questo caso la scansione temporale e topografica dell’itinerario, così come emerge dall’indagine compiuta. Carlo V sbarcò dunque a Trapani, di ritorno dall’Africa, il 20 agosto 1535, conducendo con sé una folla di 20.000 schiavi cristiani liberati dal giogo musulmano. Dopo una breve sosta ad Alcamo ed una, più lunga, a Monreale, il 12 settembre fece il suo ingresso a Palermo, ove rimase un mese tra grandi feste. Il 21 ottobre raggiunse Messina, dopo aver attraversato Termini, Polizzi, Nicosia e Randazzo. Il 2 novembre 1535  passò in Calabria, percorrendo un itinerario scelto con cura tra i feudi delle principali famiglie : così attraversa Bagnara e Sinopoli, Seminara, Monteleone, Nicastro, mentre a Cosenza era giunto il 7 novembre ed a Castrovillari il 13 ( con l’intermezzo evidentemente di Santo Mauro presso Corigliano, di cui si è detto). E’ appena il caso di far notare, a tal proposito, che la veridicità delle singole testimonianze viene avvalorata anche dalla loro perfetta integrazione reciproca. Ospite ( come s’è detto) negli “stati” feudali dei Sanseverino, l’imperatore attraversò la Basilicata meridionale ed il Principato Citra ; toccò infine Cava, Nocera dei Pagani, Stabia e Leucopetra. Dopo una sosta di tre giorni, avvenne il solenne ingresso in Napoli, ove dall’8 gennaio al 3 febbraio 1536 si tenne in San Lorenzo il Parlamento generale del Regno. Oltre ad una intensificazione dell’attività legislativa, il soggiorno di Carlo V coincise con una redistribuzione di onori e di uffici. Per quanto riguarda le feste, ebbero gran rilievo la corrida del 3 gennaio ed il banchetto del 29 febbraio, quest’ultimo in occasione delle nozze tra Margherita d’Austria ed Alessandro de’ Medici; particolarmente dilettevoli per il sovrano furono anche i balli ed i sollazzi del carnevale. Al termine del suo prolungato soggiorno napoletano, Carlo V ed il suo seguito si mossero in direzione di Roma, raggiungendo dapprima Capua, il 23 marzo, e poi Gaeta, Terracina e Velletri. Tralascio il resto, che è ininfluente ai nosteri fini.

 

         

 

          6. I punti maggiormente controversi della tradizione

           

            Se dovessimo attenerci alle fonti ed alla letteratura esaminate nei precedenti paragrafi, si potrebbe facilmente affermare che un viaggio di Carlo V a San Severo sia assolutamente da escludere, se non altro perché al di fuori dell’itinerario accertato e per la mancanza di specifiche motivazioni. Credo però che, per togliere ogni dubbio ai fautori degli orgogli municipalistici (si fa per dire), occorra anche analizzare le contraddizioni interne della storiografia locale, cercando di spiegarne le cause e l’intreccio più o meno aggrovigliato delle interpretazioni di parte.

            Procedendo in maniera schematica, per esigenza di chiarezza, si può osservare che:

  1. Manca qualsiasi fonte coeva. La prima testimonianza in proposito appare infatti nell’epistola di mons. Giannone, la cui stesura risale al 1667, secondo la data apposta dal suo stesso autore. Ne consegue che erano già passati ben centotrenta anni circa dall’evento, vero o presunto che fosse. Questo silenzio degli eventuali testimoni oculari pesa come un macigno, anche perché fatti del genere non passavano (soprattutto a quell’epoca) inosservati.

  2. La tardiva notizia trasmessa da mons. Giannone è comunque estremamente vaga e nebulosa, dato che non fornisce alcun elemento certo. Il soggiorno dell’imperatore infatti sarebbe durato “molti e molti giorni”, così come “moltissimi” sono i privilegi da lui concessi, ma di nessuno dei quali si fa parola.

  3. Da questo testo di mons. Giannone dipende il Tito, che non lo cita, ma che ne ricalca quasi alla lettera la formulazione. Scrive infatti il primo :”Si compiacque tanto di questa città Carlo V, che l’onorò con la sua presenza molti, e molti giorni […]”. Vincenzo Tito così riprende e semplifica :”[ Carlo V] onorò di sua presenza anche Sansevero”.

  4. E’ contraddittorio, oltre che generico, il riferimento ai privilegi emanati da Carlo V a favore di San Severo. Mons. Giannone ne colloca gli originali ( calcolati nella quantità astratta di “moltissimi”) nella pubblica Cancelleria. Matteo Fraccacreta si limita a segnalare la conferma dei privilegi cittadini (“[…] confermò all’Università i privilegi”). Ritengo plausibile questa conferma, come del resto si usava ad ogni cambiamento di sovrano. Il punto sta nell’accertamento del luogo, ove la cerimonia ha avuto luogo. Dovrebbe essere Napoli; ma, avendo il Fraccacreta postulato che l’imperatore si era recato a San Severo, ne deriva logicamente che in quello stesso luogo si sarebbe dato corso alla conferma.

  1. Il Fraccacreta conosce evidentemente il testo di mons. Giannone, che epitoma nella Parafrasi n. 23 della Rapsodia VIII (“Di Torremaggiore”), risultando però manchevole nell’indicazione delle pagine (cita infatti solo l’iniziale pagina 265). Sembra però che voglia dimostrare di appellarsi  alla fama (“E se il vero la Fama a noi ridice […]”) o alla tradizione (“Or è tradizione […]). Inspiegabile inoltre è il cenno ad una qualche documentazione esistente ai suoi tempi in cattedrale, cioè nella chiesa di S. Maria (“Nel Duomo leggesi […]”). Non solo non ci dice a quale scritto voglia alludere, ma non si capisce perché questo qualcosa si trovi in S. Maria e non in San Severino, dato che di quest’ultima chiesa e del suo titolare si argomenta.

   f.    A proposito di documentazione, non c’è alcuna traccia negli archivi ecclesiastici oggi esistenti (64) di materiali riferibili al presunto soggiorno di Carlo V. Bisogna anzi notare che, in base ad una ricognizione da me recentemente effettuata tra le carte del cosiddetto “Stallone antichissimo” della cattedrale di Santa Maria, la cronologia dei documenti comincia (come del resto si evidenzia sin dal titolo dato allo “Stallone”) proprio a partire dal 1535. Nonostante ciò, non vi si trova assolutamente nulla che riguardi il nostro argomento.

  1. L’Anonimo del “Manoscritto Gervasio”, databile alla prima metà del Settecento, introduce nella tradizione locale il collegamento tra il presunto soggiorno di Carlo V e la festività di San Severino. Questa cronologia è assolutamente inaccettabile, perché in contrasto con tutte le testimonianze maggiormente fededegne circa il soggiorno di Carlo V a Napoli. E’ assolutamente incredibile, se mai ci fosse bisogno di evidenziarlo, che l’imperatore si trovasse a San Severo per i Vespri della festività di san Severino (cioè la sera del 7 gennaio), per trovarsi poi a Napoli il mattino dopo. Il riferimento tuttavia al santo patrono appare molto illuminante per la ricostruzione delle motivazioni di base della tradizione locale. 

  2. Il Fraccacreta raddoppia (se non è un abbaglio della trascrizione moderna) la durata del  viaggio di Carlo V nel Regno, portandola a ben sedici mesi. 

  1. Assolutamente inaccettabile è la datazione, proposta dal Fraccacreta sulla base del racconto dell’Anonimo (ma con una punta in più di pignolesca precisione), di riti sacri officiati alla presenza dell’imperatore nella chiesa di San Severino l’8 gennaio (evidentemente del 1536), cioè nel giorno della festività del santo. E’ noto infatti che in quel giorno Carlo V si trovava a Napoli per l’apertura del Parlamento e che, proprio per la solennità dell’avvenimento, vi pronunziò il discorso inaugurale.

  1. Piuttosto singolare è la coincidenza del presunto alloggiamento dell’imperatore nel medesimo palazzo, di fronte alla chiesa di San Severino (altra curiosa coincidenza!), che aveva  ospitato molti decenni prima re Alfonso I il Magnanimo e poi il figlio e successore Ferrante d’Aragona. Si è già fatto notare che il Lucchino non cita affatto nel suddetto palazzo un soggiorno dell’imperatore, pur ricordando quelli di gran lunga precedenti.

  1. E’ strano che, al contrario di quanto si riscontra in tutte le altre città che avevano ospitato l’imperatore, non ci sia giunta la pur minima notizia circa la pompa dell’ingresso solenne e del  percorso del corteo. Allo stesso modo nulla si dice della scorta armata e del seguito del sovrano.

     

             7.   Lotta politica e manipolazione  della storia

           

            Le contraddizioni così evidenziate ed altre che se ne potrebbero aggiungere permettono, a mio parere, di avanzare alcune ipotesi interpretative, che risultano organicamente connesse con il quadro generale della vicenda e con le peculiarità della storia locale.

            Allo stato attuale delle ricerche e sulla base della documentazione finora reperibile, si può ritenere che l’arrivo ed il soggiorno di Carlo V a San Severo non sia mai avvenuto. All’epoca la città contava 703 “fuochi” , che corrispondevano approssimativamente a 3.500 abitanti, ed era una città demaniale, essendo riuscita a contrastare con energia i ricorrenti tentativi di infeudamento; nel 1627, al momento del terremoto che rase al suolo la città, gli abitanti erano circa 5.000, il che risulta perfettamente compatibile con la cifra precedentemente indicata (65). A parte ciò, mi sembra    probabile che l’imperatore abbia ricevuto a Napoli una delegazione di notabili sanseveresi, così come era accaduto con quelli di molte altre città, per confermarne i privilegi e in particolare gli statuti. Questi ultimi erano stati concessi da Ferrante I d’Aragona nel 1491, insieme a quelli di altre città (come Manfredonia, Barletta, Taranto ecc.) e costituirono per secoli la  base del governo cittadino (66).

            Era comunque inevitabile che l’infeudamento ai Di Sangro nel 1579 (ratificato a Madrid nel 1583) comportasse delle limitazioni, più o meno accentuate, all’esercizio del potere da parte dei Reggimentari (67). Del resto, lo spirito di opposizione ai tentativi di infeudamento della città è presente sin dall’età angioina, come attestato da vari episodi (68). Per limitarci all’epoca di Carlo V, è ben noto l’impegno per il riscatto della città, portato a termine  con successo da Tiberio Solis (o de Solis) nel 1521, che tuttavia comportò un notevole e prolungato aggravio delle finanze cittadine (69). Dopo quello che sarebbe stato il definitivo infeudamento ai Di Sangro, che già nel Quattrocento avevano perseguito questa finalità, non mancarono esempi anche clamorosi di opposizione, che aveva la sua base nel ceto dirigente locale. Già nelle Memorie del Lucchino (70) risulta in piena evidenza il sarcasmo, con il quale egli descrive i presunti meriti del primo feudatario, Giovan Francesco Di Sangro, valente “non solo in scaramuccie e giornate, ma eziandio in steccato [ cioè nella futile pompa dei tornei]”.  La perdita della demanialità e “della sua antica libertà”, solo in parte compensata dall’erezione della sede episcopale, viene anzi considerata un “vero presagio della sua [della città] annichilazione”, che si concretizzò “non molti anni dopo che fu disfatto l’ordine del suo governo per l’autorità e potenza del Padrone [cioè del feudatario]”. Dalla formulazione del discorso, ho l’impressione che la ricercata ambiguità dei percorsi logici induca il lettore a collegare , nella sensazione intuitiva del contesto, l’”annichilazione e ruina” della città tanto al terremoto del 1627 quanto allo scompaginamento del governo dei Quaranta reggimentari, guidati dal mastrogiurato e da tre “sindaci”. Questo governo, spiega il Lucchino, “si reggeva a guisa di Repubblica da’ Cittadini nobili, e l’ufficio non era a vita, ma anche de’ successori della famiglia. Erano in numero di quaranta” ; poco appresso anzi si ribadisce che “tutto il governo [era] in mano de’ nobili, e perpetuo”. A indebolirne il potere, che ovviamente faceva da contraltare a quello del feudatario, scese in campo (prima ancora della morte di suo padre, Giovan Francesco) il principe Paolo Di Sangro, che fece leva sul malcontento “del Popolo, il quale vedendosi perpetuamente privo di governare, ed odiando questo ufficio ne’ nobili, a’ quali pareva loro essere in certo modo soggetti, in consiglio generale accettarono la distruzione di esso”. Il discorso del Lucchino si chiude così con la deprecazione della “superbia ed ambizione di popolo”, la cui “instabilità e leggerezza” è causa continuamente di “calamità e rovina”. Abbiamo così uno scenario molto chiaro del quadro politico coevo, che vedeva contrapposti per la gestione del potere locale da un lato il “dispotismo” e la “tirannia” del feudatario, mentre dall’altro l’oligarchia chiusa del ceto nobiliare. Il resto della popolazione, che risentiva più immediatamente l’oppressione degli interessi oligarchici, finiva per diventare (nell’ottica inquieta del patriziato) la massa degli occasionali fiancheggiatori e sostenitori della “prepotenza” feudale.

            Antonio Lucchino (71) terminava di comporre la sua opera, come s’è detto, nel 1630 ; egli  faceva parte del clero di San Giovanni Battista ed era anche notaio apostolico. Proprio in questa sua veste professionale, provvide a redigere una copia dell’accordo stipulato nel 1634 dal principe Paolo con il vescovo di San Severo. Era accaduto infatti che il duca Giovan Francesco,  padre di Paolo e primo feudatario di San Severo, era morto a Castelnuovo nel 1628 e vi era stato seppellito nella chiesa matrice. Poiché tuttavia era stato scomunicato, per non aver voluto pagare le decime al vescovo (che era allora Francesco Ventura o Venturi) su alcuni territori feudali, il suo corpo venne dissotterrato e trasportato a Napoli in una chiesa , che venne di conseguenza colpita dall’interdetto. Alla fine si arrivò ad una composizione della vertenza, mediante il pagamento da parte del figlio di 150 ducati l’anno, a partire dal 1529 (72). Don Antonio Lucchino appare inoltre nel 1619, come testimone in un atto di compravendita (73).

             Per tornare ai Lucchino, fratello di Antonio era Giulio, cui fu a lungo attribuita (come si riscontra, ad esempio, ripetutamente in Fraccacreta) la paternità delle Memorie ; Giulio era arciprete di San Nicola e morì nel 1608. E’ merito del Checchia (74), che ebbe modo di sviluppare alcune annotazioni di Gaetano Del Vecchio, non solo l’aver determinato la giusta attribuzione delle Memorie ad Antonio, ma anche la composizione della famiglia, trapiantata a San Severo dalla natia Montecalvo, in Irpinia. Aggiungo che anche l’arciprete Giulio Lucchino aveva la qualifica di notaio apostolico, come risulta da un documento del 1604 da lui stesso rogato (75). Sulla base poi del suo testamento, in data 30 maggio 1608, conosciamo l’esistenza di un terzo fratello, Ottavio,  e di quattro sorelle : Livia, Silvia, Laura e Camilla. Mentre di queste ultime due non si sa altro, le restanti sposarono due personaggi di un certo rilievo nell’ambito locale : Livia si maritò con  Scipione Stella e Silvia con il notaio Giovanni Antonio Galluccio. Quest’ultimo è menzionato in numerosi atti, compresi tra il 1600 ed il 1618, ma sembrerebbe ancora vivo nel 1621 (76) ; potrebbe essere suo parente quell’Achille Galluccio che si prestò, come depreca la storiografia locale, a presenziare allo strumento di vendita di San Severo a Giovan Francesco De Sangro (77). Della famiglia Stella, nei primi decenni del Seicento, sono attestati negli atti notarili coevi un Marino, nel 1606, ed un Francesco nel 1614 (78). In complesso, mi sembra che i Lucchino fossero ben inseriti in quel contesto sociale, che viene comunemente definito  come patriziato cittadino, presente anche in molti centri urbani di secondo piano e comunque legato ad una tradizione di consolidata autonomia (79).

            Sulla medesima linea interpretativa del Lucchino e del ceto nobiliare di San Severo si pose, a quanto risulta dall’analisi della sua epistola, mons. Francesco Antonio Giannone, discendente (come s’è visto) da una delle famiglie della oligarchia cittadina. Il suo scritto, redatto nel 1667, dopo la narrazione delle leggende circa la fondazione e le vicende dei tempi più remoti di San Severo, passa all’improvviso ai tempi di Carlo V ed ai “moltissimi” privilegi dall’imperatore concessi alla città, di cui viene esaltata l’importanza e lo spirito di autonomia ; un termine, quest’ultimo, che mi pare debba essere inteso in riferimento al ceto dirigente locale. A questo punto ed anche alla luce del contesto storico in precedenza delineato, risulta plausibile una lettura “controluce” dell’epistola giannoniana che, dietro l’apparente ossequio di prammatica nei confronti del feudatario, celebra in realtà l’autonomia del tradizionale governo cittadino, affidato alle cure dei Quaranta, che di fatto erano in contrapposizione al “dispotismo” dei Di Sangro. Alle origini della “legittimità” del governo municipale c’era dunque l’autorità regia (angioina ed aragonese), confermata e rafforzata dai privilegi (veri o presunti) concessi dall’imperatore. Perciò bisognava accentuare e rendere quasi tangibile nella sua concretezza il rapporto con Carlo V, del quale si postulava a definitiva sanzione la presenza diretta e quasi “sacrale” all’interno della città. Cominciava in tal modo la manipolazione, se non addirittura il capovolgimento, dei dati storici e del loro significato. Nasceva però intanto una tradizione, che si andava man mano consolidando e che acquisiva di fatto una sua indiscutibile certezza.

            Non  sembra che nei decenni successivi allo scritto del Giannone il quadro politico cittadino abbia visto dei mutamenti, anzi le vicende locali evidenziano ricorrenti episodi, che dimostrano non solo la persistenza della conflittualità latente, ma addirittura punte di occasionale inasprimento . Questo spiega, ad esempio, l’attentato alla vita del feudatario da parte di un Severino de Letteriis, il quale rimase impunito “perché niun testimone volle deporre contro di lui” (80). Contro i misfatti di Paolo Di Sangro (secondo principe di questo nome) e di suo figlio Antonio, che il Fraccacreta (81) definisce “veri Dionigi tiranni”, il mastrogiurato Giacomo Pazienza ( insieme ai “sindaci”, tutti quindi esponenti del ceto dirigente locale) presentò, nel 1723, una articolata denunzia alla corte regia (82). I capi di accusa, sommariamente trascritti dal Fraccacreta (83), elencavano dettagliatamente una serie di “scelleraggini” : malversazioni di denaro pubblico e privato; estorsioni; obblighi fiscali inevasi;  prelievi abusivi sul commercio locale; locazioni e compere forzose; prelazioni ingiustificate sui beni altrui ; costi elevatissimi per diritti sulle macellazioni, sui “trappeti” ed i forni ; danneggiamenti causati dalle loro continue battute di caccia ; usurpazioni di diritti pubblici ; dispregio delle leggi e delle magistrature statali ; brogli nelle elezioni comunali, violenze sulle donne e attentati al loro onore. Questi comportamenti delittuosi sfociavano spesso in bastonature, carcerazioni illegittime in un orrido sotterraneo della torre del loro palazzo [ evidentemente a Torremaggiore], oltraggi ed umiliazioni di ogni genere, sino a giungere all’assassinio degli oppositori più pericolosi  per mano di sicari prezzolati: La tracotanza di questi feudatari, che ostentavano intorno alle loro persone pompe degne di un satrapo o di un pascià, si coronava con la pretesa di usufruire per la loro famiglia del titolo di “Augustissima Casa d’ Sangro”. La reazione nel 1723 del mastrogiurato e dei “sindaci”, che evidentemente era sostenuta (al di là dei fatti occasionali) da una generale e condivisa opposizione al feudatario, portò ad un ulteriore inasprimento dello scontro, a causa dell’uccisione proditoria del “sindaco” Niccolò Rossi, il 2 marzo di quell’anno, da parte di un sicario.  L’assassinio suscitò un grande scandalo e l’apertura di una inchiesta giudiziaria, che alla fine si risolse in un nulla di fatto. A parte ciò, è opportuno ricordare che i retroscena di questo famoso episodio, celebrato in chiave “patriottica” e nell’ottica dell’”abuso feudale”, sono analizzati dal Colapietra (84) con la finalità di cogliere gli elementi concreti del conflitto in corso : si evidenzia così l’offensiva “spregiudicata e sopraffattrice” dei Di Sangro, contrastata dal ceto dei proprietari e da quello, in fase di crescita, dei massari.

          A pochi anni dopo, precisamente al 1733, risale la stesura del  cosiddetto “Manoscritto Gervasio” a cura dell’Anonimo. Nei brani superstiti (quelli tramandati dal Checchia) si riconosce la persistenza del filone polemico antifeudale, già riconoscibile  nelle tesi  propugnate dal Giannone. Del resto, lo spirito di resistenza che animava le èlites locali (o la maggior parte di loro) trovava un costante alimento, non solo nella difesa dei privilegi tradizionali delle oligarchie nobiliari, ma anche nel contrasto all’esercizio dei poteri feudali sui singoli vassalli o sull’intera comunità cittadina, ben oltre quindi i picchi di conflittualità provocati da eccessi contingenti. Il feudatario infatti vantava diritti (85), sovente abusivi, per quel che riguardava sia l’esercizio dei poteri giurisdizionali (cui erano collegati quelli di polizia), sia  di quelli politico-amministrativi (come il monopolio sulla trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, ma anche sui terraggi, le gabelle, gli affitti ecc.). All’orientamento antifeudale, l’Anonimo aggiungeva però la novità di uno stretto aggancio al culto del santo patrono, che fa quasi da contraltare alla “prepotenza” usurpatrice del “padrone” feudale. Egli appunto collegava, con un anacronismo degno di nota (perché l’impegno venne assunto in verità solo nel 1664), alla visita di Carlo V l’offerta annua, da parte della comunità cittadina, di cento libbre di cera al glorioso patrono san Severino. L’Anonimo affermava infatti che tale offerta, “come oggi religiosamente si osserva”, era stata decisa “in memoria di questo beneficio”, cioè della conferma dei privilegi da parte di Carlo V nella chiesa di San Severino (86). A titolo di mera ipotesi di lavoro, si potrebbe ipotizzare che l’aggancio al culto di San Severino, che nel frattempo si era affermato come santo patrono nonostante l’iniziale “concorrenza” di san Sebastiano (87), sia stata suggerita anche dal tentativo (più o meno consapevole) di ottenere un più vasto appoggio popolare. Non è da dimenticare infatti che i Di Sangro, come si è già detto, erano  riusciti a indebolire il regime oligarchico dei Quaranta, facendo proprio leva su quei ceti medio-bassi esclusi dal governo cittadino. La questione collegata al patronato dei santi Severino e Sebastiano merita indubbiamente di essere riesaminata ed approfondita, ma per ora è sufficiente rinviare agli studi già disponibili (88). Mi limito solo a notare che fu proprio Tiberio Solis (o de Solis), “memorabile per avere anche in quell’anno [ 1522 ] liberato la Patria dal Baronaggio”, a far deliberare una offerta annua di dieci libbre di cera bianca lavorata e di una messa solenne in onore di san Sebastiano (89).

              Il Fraccacreta  forse non si rende neppure pienamente conto dei motivi ispiratori delle versioni da lui raccolte, fondendole in rapporto alle sue esigenze erudite, a volte prevalenti su quelle di una credibile analisi critica . L’aspetto antifeudale è sicuramente ben presente, anzi le espressioni attingono a piene mani  dal consueto armamentario delle invettive classiche contro i “tiranni”: non basta anzi il riferimento ai celebri tiranni siciliani, ma soccorre anche il paragone  con Verre delle orazioni ciceroniane (90). L’erudizione d’altro canto soccorre con i suoi dettagli il discorso del Fraccacreta, che ben sapeva dei miracoli di San Severino a protezione della città, proprio contro le masnade dell’esercito imperiale (91). La presunta celebrazione dei sacri riti nella chiesa di San Severino e (guarda caso !) in concomitanza con il giorno festivo del santo acquista così, da un lato, il sapore dell’atto penitenziale da parte del colpevole, sia pure indiretto ; dall’altro rafforza il prestigio del patronato del santo e, quindi, della sua città e dei suoi cittadini nei confronti del feudatario, che vuole imporre le proprie leggi. I particolari poi circa l’alloggio offerto in San Severo a Carlo V derivano, per così dire, da una sorta di sovrapposizione erudita (sia nell’Anonimo sia in Fraccacreta) con le memorie locali circa i soggiorni dei sovrani aragonesi nel secolo XV, condotti in queste zone del Regno dalla imprevedibilità delle campagne di guerra da loro sostenute (92).

             In sintesi, le notizie sul viaggio ed il soggiorno di Carlo V a San Severo non hanno alcuna base scientifica. E’ invece probabile che l’imperatore abbia ricevuto a Napoli i delegati della città e che ne abbia confermato i privilegi. Il ricordo abbastanza vago di tali eventi permise la nascita, verso la fine del secolo XVII, di una tradizione circa l’arrivo di Carlo V, ripetuta acriticamente dalla maggior parte degli storici locali. La questione venne finalizzata alla difesa degli antichi privilegi del ceto nobiliare cittadino, in contrasto con l’affermarsi della feudalità dei Di Sangro. L’ipotizzata presenza dell’imperatore e l’intervento del santo patrono risultavano determinanti, allo scopo di sancire la legittimità e la sacralità dei diritti conculcati dalla feudalità. La manipolazione della storia diventava, di fatto, la verità della storia.

            Credo in tal modo che il cerchio si sia chiuso sulla leggenda e si sia aperto sulla storia. Come sempre però dovrebbe accadere nel campo della ricerca scientifica, c’è sempre spazio per approfondimenti e riletture, senza pregiudizi né arroganze di alcun tipo.

                PASQUALE CORSI

    Ordinario di Storia Medievale - Facoltà di Lettere - Università di Bari

                                                       

                                                                                                              

 

     NOTE  

 

(1)   Le notizie biografiche sono tratte dai testi elencati alle susseguenti note  42-45.

(2)   In particolare il vol. II, edito a San Severo nel 1989, a cura di B. Mundi , si veda soprattutto il saggio di R. COLAPIETRA, Tra potere feudale e clero ricettizio, pp. 341-385.

(3)   U. PILLA – V. RUSSI, San Severo nei secoli, San Severo 1984, pp. 51-53.

(4)   G. STOICO, La chiesa di S. Maria della Pietà in San Severo (Fg), Foggia 1997, p. 26.

(5)   Memorie storiche della città di Sansevero in Capitanata, Napoli 1875, p. 71.

(6)   Idem.

(7)   Appunti cronologici da servire per una storia della città di Sansevero, Firenze 1871, p. 23 (II edizione con correzioni ed aggiunte dell’Autore, Introduzione e note di F. Giuliani, San Severo 1993).

(8)   Memorie della parrocchiale e collegiata chiesa di S. Giovanni Battista eretta nella città di Sansevero, Napoli 1859, p. 25 e nota 2.

(9)   Synodus Severopolitana, Napoli 1826; cfr. Cronotassi, iconografia e araldica dell’episcopato pugliese, Bari 1984, p. 282.

(10) M. FRACCACRETA, Teatro topografico storico poetico della Capitanata e degli altri luoghi più memorabili e limitrofi della Puglia, V, Napoli 1837, p. 46 (rist. anast. : Sala Bolognese 1975 ) ; cfr. anche ibidem,  strofe n. 130. 

(11)  Si veda infra, alla nota 13.

(12)  FRACCACRETA, Teatro cit., V, p. 146.

(13)  Corrispondono alle pp. 46-47 delle bozze di stampa. Ringrazio ovviamente il curatore ed anche l’editore Alfio Nicotra ( Gerni Editori ) per la loro cortese disponibilità.

(14)  A. LUCCHINO, Del terremoto che addì 30 luglio 1627 ruinò la città di Sansevero e terre convicine (cronaca inedita del 1630), a cura di N. Checchia, Foggia 1930, p. 57 e passim.

(15)  Su Gaetano Del Vecchio si veda : U. PILLA, Ricordo di Umberto Fraccacreta e del suo vecchio maestro, in “Notiziario storico archeologico” , II (dicembre 1967), pp. 50-55, particol. pp. 50-52.

(16)  Si veda in proposito : A. CASIGLIO, Due testimonianze sulla Regia Udienza in San Severo, in “Notiziario storico archeologico”, III (novembre 1979), pp. 7-12.

(17)  A. LUCCHINO, Memorie della città di San Severo e suoi avvenimenti per quanto si rileva negli anni prima del 1629, a cura di N.M. Campanozzi, San Severo 1994 ; cfr., per una analisi letteraria del testo, il saggio di E. D’ANGELO, Le “Memorie della città di Sansevero di Antonio Lucchino, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia”, XLVII (2004), pp. 247-262.

(18)  LUCCHINO, Memorie cit., p. 47.

(19)  Idem, p. 81; cfr. l’edizione Checchia, p. 18.

(20)  C. BOTTA, Storia d’Italia (1534-1814), I-III, Lugano- Firenze 1835-1836, particol. I, (1534-1660), Firenze 1836, p. 22.

(21)  GERVASIO, Appunti cit., pp. 7 e 63 ; cfr. p. XXI dell’Introduzione.

(22)  FRACCACRETA, Teatro cit., IV, Napoli 1834, pp. 279-282.

(23)  Idem, p. 281.

(24)  Idem, V, ottava n. 86, p. 173, e parafrasi n. 83 (nella trascrizione Bruno, p. 104), ove la sua morte è datata giustamente al febbraio 1708.

(25)  AA.VV., Lettere memorabili, a cura di M. Giustiniani, I-III, Roma 1667-1675, particol. III, coll. 265-275. 

(26)  AA.VV., Delle Lettere memorabili, I-II, Napoli 1685.

(27)  Si veda, in proposito, LUCCHINO, Del terremoto cit., ed. Checchia, p. 106, nota 36. Un quadro generale circa le leggendarie origini di San Severo si trova ora delineato in A. RUSSI, Saggi di storia della storiografia meridionale, Roma 2004, in particolare il cap. I ( Tra mitologia e storiografia : il problema delle origini di San Severo ), pp. 13-71. Al dotto Autore è sfuggito, certamente perché marginale alla tematica da lui trattata, l’opportunità di un accertamento critico dell’ipotetico viaggio di Carlo V a San Severo, come risulta a p. 26.

(28)  RUSSI, Saggi di storia cit., p. 33.

(29)  L. ALBERTI, Descrittione di tutta Italia, Venezia 1557 ; cfr. RUSSI, Saggi di storia cit., pp. 22-23 (dall’ediz. : Bologna 1550 ).

(30)  COLAPIETRA, Tra potere feudale cit., pp. 345-346 e nota n. 7.

(31)  UGHELLI F. – COLETI N., Italia sacra, VIII, Venezia 1721, col. 248 (rist. anast. : Sala Bolognese 1973) ; cfr. P. B. GAMS, Series episcoporum Ecclesiae Catholicae, Graz 1957, p. 860, n. 23 (1^ ediz. : Regensburg 1873-1884). 

(32)  FRACCACRETA, Teatro cit., IV,  pp. 279 e 283; cfr. V, p. 193.

(33)  DE AMBROSIO, Memorie cit., p. 102.

(34)  TITO, Memorie cit., p. 25.

(35)  DE AMBROSIO, Memorie cit., p. 133.

(36)  Istoria delle cose di Napoli sotto l’imperio di Carlo V scritta per modo di Giornali, in Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell’istoria generale del regno di Napoli, VIII, Napoli 1770, pp. 57-72 Tra le precedenti edizioni, ho potuto consultare anche quella di Napoli 1635).

(37)  Del sito e delle lodi della città di Napoli, Napoli 1566, pp. 152r –153v.

(38)  Historia della città e Regno di Napoli, V, Napoli 1749, pp. 185-186 e 216-222.

(39)  A. MUSI, Carlo V nella “Historia della città e Regno di Napoli” di Giovanni Antonio Summonte, in Sardegna, Spagna e Stati italiani nell’età di Carlo V, a cura di B. Anatra e F. Manconi, Roma 2001, pp. 51-61

(40)  P. GIANNONE, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di A. Marongiu, I-VII, Milano 1970-1972, particol. VI, Milano 1971, pp. 18-23 (1^ ediz.: Napoli 1723).

(41)  Storia civile e letteraria del Regno di Napoli, I-II, Napoli 1846, particol. II, pp. 40-41.

(42)  Privilegi et Capitoli con altre Gratie concesse alla Fidelissima Città di Napoli, & Regno per li Serenissimi Rì di Casa de  Aragona, confirmati, & di nuovo concessi per la Maestà Cesarea dell’Imperator Carlo V. et Re Filippo Nostro Signore, con tutte le altre Gratie concesse per tutto questo presente Anno MDLXXXVII. Con nuove addizioni, & la tavola delle cose notabili e di nuovo ristampati con le nuove Gratie, e Privilegii conceduti e confirmati dalla Sacra Cesarea e Cattolica Maesta di Carlo VI Imperadore sino all’anno 1720, I, Milano 1720, pp. 154-156 (discorsi dell’8 gennaio 1536 in San Lorenzo, alla presenza  di “tutti Baroni, et Sindici de le Terre demaniale de quisto Regno) e pp. 156-158

( in San Lorenzo, il 3 febbraio 1536 [ erroneamente 1535 ] ).

(43) Storia del Regno di Sicilia, I-III, Palermo 1861-1864, particol. III, Palermo 1864, pp. 30-33.

(44)  Carlo V, a cura di M. Pagliaro, Milano 2000, pp. 15-16.

(45)  Carlos V, 1500-1558. Una biografia, Madrid-Barcellona 2000, pp. 260-261 (tit. orig. : Karl V. 1500-1558. Eine Biographie, Munchen 1999 ).

(46) Carlo V, Torino 2001, pp. 358-361 (tit. orig. : Kaiser Karl V, Munchen 1987).

(47)  P. MERLIN, La forza e la fede. Vita di Carlo V, Roma-Bari 2004, pp. 193-195.

(48)  C. VILLANI, Foggia nella storia, Foggia 1930, p. 82, ove si riporta anche ( in traduzione italiana) un passo della lettera del 1543.

(49)  Si vedano i saggi di J.A. MARINO, La fiera di Foggia e la crisi del XVII secolo, pp. 57-77, particol. p. 62, e di R. COLAPIETRA, Elite amministrativa e ceti dirigenti fra Seicento e Settecento, pp. 103-118, particol. p. 104. Entrambi i saggi sono stati pubblicati in Storia di Foggia in età moderna, a cura di S. Russo, Foggia 1992.

(50)  Si veda la cronistoria di Pietrantonio Rosso, che può essere considerato un testimone oculare degli eventi, essendo nato a Manfredonia il 1° febbraio 1527 : P. ROSSO, Ristretto dell’istoria della città di Troja e sua diocesi, dall’origine delle medesime al 1584, a cura di N. Beccia, Trani 1907, pp. 339-343 (rist. anast. : Troia 1987).   

(51)  R. RUSSO, Barletta nel ‘500 al tempo della Disfida e della dominazione spagnola, Barletta 2003, pp. 44-45, 50 e passim.

(52)  Idem, pp. 44-46.

(53)  L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti, I, La città, nuova ediz. postillata da N. Vacca, Lecce 1964, pp. 80 e 329 ; cfr. M. FAGIOLO – V. CAZZATO, Lecce, Roma-Bari 1988, pp. 69-76, e B. VETERE, “Civitas” e “Urbs” dalla rifondazione normanna al primato del Quattrocento, in Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, a cura di B. Vetere, Roma-Bari1993, pp. 55-195, particol. pp. 57-58 e 101, nota 132.

(54)  Meritano di essere ricordati in particolare, per la loro affinità con gli argomenti in discussione, i saggi di G. CONIGLIO, L’amministrazione della Puglia nella prima metà del secolo XVI, pp. 277-292, e di G. D’AGOSTINO, Il Parlamento napoletano nell’età spagnola, pp. 293-307. Entrambi i saggi sono stati pubblicati nel vol. I degli Atti del Congresso internazionale di studi sull’età del Viceregno, a cura di F.M. De Robertis e M. Spagnoletti [ Società di Storia Patria per la Puglia. Congressi, VI ], I-II, Bari 1977.

(55)  A. MUSI, Il Viceregno spagnolo, in Storia del Mezzogiorno, IV,1, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Roma 1986, pp. 203-284, particol. p. 208.

(56)  A. SPAGNOLETTI, Guerra, Stati e Signori in Italia nell’età di Carlo V, in Carlo V e l’Italia, a cura di M. Fantoni [ Seminario di studi. Georgetown  University a Villa Le Balze (14-15 dicembre 2000)], Roma 2000, pp 77-100.

(57)  G. D’AGOSTINO, Città e Regno di Napoli nell’età di Carlo V, in Carlo V e l’Italia cit., pp. 25- 37.

(58)  S. LEYDI, “Sub umbra imperialis aquilae”. Immagini del potere e consenso politico nella Milano di Carlo V, Firenze 1999, particol. pp. 34-37 , 75-79 e passim.

(59)  C. P. DI MARTINO, La terra e il barone : dal XVI al XVIII secolo, in Corigliano Calabro : storia, cultura, economia , a cura di F. Mazza [ Le città della Calabria, 15 ], Soneria Mannelli 2005, pp. 83-133, particol p. 86. Sulla formazione del feudo e la dominazione dei Sanseverino, si veda nel medesimo volume : P. CORSI, Dalla leggenda alla storia: l’età antica e medievale, pp. 25-79.

(60)   G. TORTOLANI, Un albarello di Vietri con lo stemma Sanseverino, in “Alba Pratalia. Semenzaio delle memorie”, 7 (dicembre 2005), pp. 211-212, con la citazione tratta da V. BRACCO, La descrizione seicentesca della Valle di Diana di Paolo Eterni, Napoli 1982, p. 44.

(61)  Idem, p. 211, ove è riportata la citazione da  C. GATTA, Memorie topografiche-storiche della provincia di Lucania, Napoli 1732, p. 407.

(62)  C. DE FREDE, Ferrante Sanseverino contro la SpagnaAtti  congresso Viceregno cit., I, pp. 309-372, particol. p. 313.

(63)  Il viaggio cerimoniale di Carlo V dopo Tunisi, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2 (2001), pp. 5-50.

(64)  Ho controllato i tre volumi dell’Inventario dell’Archivio Storico Diocesano : Archivio del Capitolo Cattedrale di San Severo, a cura di M. F. d’Orsi, San Severo, s.d. ;  Archivio curiale, a cura di M. F. d’Orsi, San Severo, s.d. ; Archivio parrocchiale di S. Severino Abate in San Severo, a cura di L. Orsi, San Severo, s.d., procedendo anche ad un controllo diretto del manoscritto (risalente, a quel che pare, al 1722) del cosiddetto Stallone antichissimo di questa Catedral chiesa / sin dall’anno 1535 colla notizia di molte cose / passate […]. Ho controllato anche la documentazione raccolta in P. CORSI, Regesto delle pergamene di San Severo in età moderna, San Severo 1992.

(65)  La prima cifra è fornita da G. CONIGLIO, Il regno di Napoli al tempo di Carlo V. Amministrazione e vita economico-sociale, Napoli 1951, p. 155. Per la seconda cifra si veda l’edizione del Lucchino a cura di Checchia, p. 110, nota 45.

(66)  Ne ho proposto una puntuale analisi in P. CORSI, San Severo nel Medioevo, in Studi per una storia di San Severo cit., I, pp. 165 – 337, particol. pp. 208-217.

(67)  La questione è chiaramente espressa dal DE AMBROSIO, Memorie cit., p. 114, che richiama l’introduzione nella città da parte del feudatario di un proprio governatore.

(68)  Per gli episodi accaduti nelle epoche precedenti il dominio spagnolo, mi permetto di rinviare a CORSI, San Severo nel Medioevo cit., pp. 198, 202 e 205-206; cfr. anche DE AMBROSIO, Memorie cit., p. 108.

(69)  FRACCACRETA, Teatro cit., V, rapsodia  IX (“Di San Severo I ), ottave nn. 103-109, pp. 37-39, parafrasi nn. 83-86, pp. 124-128 ; cfr. DE AMBROSIO, Memorie cit., pp. 66-67 e PILLA-RUSSI,  San Severo cit., p. 51.

(70)  Ho seguito in questo caso l’edizione a cura di Checchia, pp. 3-4 , che presenta delle varianti (in genere, grafiche) rispetto a quella curata dal Campanozzi, pp. 46-48. Si veda inoltre, per quanto riguarda l’atteggiamento del Lucchino nei confronti della Casa feudale dei Di Sangro, caratterizzato da una “feroce ironia”, il saggio di D’ANGELO, Le “Memorie” cit., pp. 252-255.

(71)  LUCCHINO, Del terremoto cit., ediz. Checchia, pp. XII-XV dell’Introduzione ; cfr. anche la nota n. 18, pp. 78-80.

(72)  CORSI, Regesto cit., p. 38, n. 37.

(73)  FRACCACRETA, Teatro cit., IV, rapsodia VIII (“Di Torremaggiore”), ottava n. 123, p. 254, e parafrasi nn. 114-117, pp. 375-376 ; Idem, V, rapsodia X (“Di Sansevero II”), ottava n. 68, p. 167, e parafrasi n. 63 (trascrizione Bruno, p.92). Si veda anche DE AMBROSIO, Memorie cit., pp. 127-128.

(74)  CORSI, Regesto cit., pp. 24-25, n. 23.

(75)  LUCCHINO, Del terremoto cit., nota n. 18, pp. 78-80.

(76)  DE AMBROSIO, Memorie cit., p. 114 . Si vedano anche le testimonianze raccolte in CORSI, Regesto cit., pp. 17, n. 15 (1600) ; 27, n. 25 (1606) ; 28, n. 26  (1606) ; 39, n. 38 (1621) ; e in P. CORSI, Considerazioni preliminari su alcuni protocolli notarili inediti (secolo XVII), in Atti del 14° Convegno sulla Preistoria – Protostoria- Storia della Daunia (San Severo, 27-28 novembre 1993), San Severo 1996, pp. 113-131, particol. pp. 120, n. 5 (1605), e 128, n. 12 (1606). Sembra riferibile alla famiglia Gallucci una lapide con relativo stemma (un gallo che becca un serpente e tre stelle in alto), datata al 1628 e ritrovata nel 1971 durante uno scavo : PILLA-RUSSi, San Severo cit., p. 59, nota n. 67.

(77)  DE AMBROSIO, Memorie cit., p. 109, e  GERVASIO, Appunti cit., p. 28. Delle tappe che portarono all’infeudamento di San Severo, si veda la ricostruzione offerta da R. COLAPIETRA, Capitanata, in Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso e R. Romeo, VII, Roma 1986, pp. 27-00, particol. pp. 27-33.

(78)  CORSI, Considerazioni preliminari cit., p. 130, n. 14 ; ID., Regesto cit., p. 33, n. 33.

(79)  Sulla questione si veda il saggio di A. MASSAFRA, Note sulla geografia feudale della Capitanata in Età moderna, in La Capitanata in Età moderna. Ricerche, a cura di S. Russo, Foggia 2004, pp. 17-47, particol. pp. 28-29, 35 e passim (per quanto riguarda San Severo e lo “stato” feudale dei Di Sangro.

(80)  DE AMBROSIO, Memorie cit., p. 117, che però non indica né la fonte della notizia né la data dell’avvenimento.

(81)  FRACCACRETA, Teatro cit., IV, Rapsodia VIII, parafrasi 118, p. 376.

(82)  DE AMBROSIO, Memorie cit., pp. 118-119 ; cfr. G. PAZIENZA, Una illustre famiglia nella storia di San Severo. Giacomo Pazienza “mastrogiurato”, in “Notiziario storico archeologico”, II (1972), pp. 97-103, particol. pp. 101-102, ove è riportato anche il riferimento ad una epigrafe, tuttora esistente sul muro laterale della chiesa della Pietà, che recita :”Pugna pro Patria. 1723”.

(83)  FRACCACRETA, Teatro cit., IV, rapsodia VIII, parafrasi 118, pp. 376-378; cfr. GERVASIO, Appunti cit., p. 30, e PILLA-RUSSI, San Severo, pp. 68-69, ove si riporta anche un brano tratto dagli scritti di Benedetto Croce, riguardante appunto le tumultuose vicende di Antonio Di Sangro.

(84)  COLAPIETRA, Tra potere feudale cit., pp. 370-371.

(85)  MASSAFRA, Note cit., pp. 26-27 e 40-41.

(86)  LUCCHINO, Del terremoto cit., ediz. Checchia, nota n. 4, pp. 66-67.

(87)  I due santi, Sebastiano e Severino, sono presentati dalla tradizione quali concordi tutori della città, in occasione del miracolo del 20 febbraio 1521 : GERVASIO, Appunti cit., pp. 19-20 ; DE AMBROSIO, Memorie cit., pp. 65-66. In occasione della spedizione del Lautrec, nel 1528, appare invece solo san Severino a difendere la città : GERVASIO, Appunti cit., pp. 22-23 ; DE AMBROSIO, Memorie cit., pp. 68-69. A sua volta san Sebastiano, annoverato anch’egli tra i patroni di San Severo, venne ritenuto dalla tradizione come il miracoloso liberatore, nel giorno della sua festività (il 28 gennaio), dalle truppe vallone che l’avevano occupata dal 25 novembre 1617 al 28 gennaio 1618 : LUCCHINO, Del terremoto cit., ediz. Checchia, pp. 5 (testo) e 68, nota n. 6, nella quale si trascrive un brano dell’Anonimo del “Manoscritto Gervasio”, che (quasi a contrappunto) ricorda il precedente miracolo di san Severino ; cfr. anche PILLA-RUSSI, San Severo cit., pp. 68-69.

(88)  Mi riferisco, in particolare, alla monografia di E. D’ANGELO, Studi su san Severino abate, patrono principale della città di Sansevero, San Severo 1999, e all’opera di TITO, Memorie cit., pp. 21-25 e 40.

(89)  TITO, Memorie cit., p. 24.

(90) Paolo ed Antonio Di Sangro sono infatti dei “Verri” : FRACCACRETA, Teatro cit., IV,

rapsodia VIII (“Di Torremaggiore”), ottava n. 204, p. 254, e parafrasi n. 119, p. 378.

(91) Idem, V, rapsodia IX (“Di Sansevero I” ), ottave 124-127, pp. 44-45, e parafrasi nn. 94-95,

pp. 131-136. Ivi di nuovo appare, alle  pp.135-136, in riferimento al silenzio di ogni altra fonte circa questo miracolo di san Severino, quella singolare teoria storiografica del nostro Autore, già usata per il presunto arrivo di Carlo V a San Severo : “La storia del Regno tace bensì quel prodigio di S. Severino : ma il suo silenzio non è argomento negativo, se l’afferma la tradizione costante : chi tace, afferma : e la tradizione costante è veridica al par della storia. Più gl’increduli ammutisce la divozione pel nostro Santo tutelare”.

(92) Si veda CORSI, San Severo cit., pp. 204-217.

 

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